Arequipa - inperuconfloratristan

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Mi trovavo dunque nella casa dove era nato mio padre, dove i miei sogni d’infanzia mi avevano spesso trasportata! Il presentimento che un giorno l’avrei vista si era radicato nel mio animo e non l’aveva più abbandonato, un presentimento legato alla venerazione che avevo per lui e che ne ha conservata viva l’immagine nel mio pensiero.
Ho esaminato le due stanze in cui ero alloggiata. Vi era stato anche mio padre? L’idea conferiva un grande fascino al locale, il cui aspetto buio e freddo gelava il cuore. Il mobilio della prima stanza era formato da un grande cassettone in legno di quercia, che doveva essere giunto in Perù con la spedizione di Pizzarro e che per la sua forma risaliva al regno di Ferdinando e Isabella, da un tavolo, da alcune sedie, nello stile introdotto in Spagna da Filippo IV, duca d’Angiò, e da un grande tappeto inglese, che copriva quasi tutto il pavimento. I muri erano imbiancati a calce e tappezzati di carte geografiche. La sala, di almeno 25 piedi di lunghezza e 20 di larghezza, era illuminata in alto da un’unica finestra con quattro vetri.

La seconda stanza era separata da un tramezzo che non arrivava fino al soffitto, era più piccola e prendeva luce dalla prima. Il suo mobilio consisteva in un piccolo letto in ferro ornato di tende di mussola bianca, un tavolo di quercia, quattro vecchie sedie e un antico tappeto Gobelins. Per la forma, l’atmosfera e l’oscurità, la stanza  assomigliava a un sotterraneo. La vista dell’alloggio che la mia famiglia mi aveva assegnato aveva fatto scendere una profonda tristezza nel mio animo e nella mia mente si era affacciata l’idea della temuta avarizia dello zio. Si può giudicare il padrone di casa dal modo di agire di coloro che lo rappresentano e se dona Carmen mi aveva riservato quella spelonca è perché era sicura che se lui fosse stato presente avrebbe fatto lo stesso. Per non lasciarmi dubbi al riguardo, mentre mi accompagnava, mi ha detto che quell’appartamento, benché poco adatto, era l’unico  disponibile per ricevere i parenti e gli amici. Quel tratto dipingeva lo zio. Capo di una numerosa famiglia, in relazione, grazie ai suoi alti incarichi e ai suoi meriti personali, con la parte più distinta del paese, don Pio disponeva di una fortuna colossale, ma non poteva offrire ai suoi parenti e amici che una fredda cantina, nella quale c’era bisogno di accendere la luce anche a mezzogiorno per poter leggere. Queste riflessioni mi hanno agitata a tal punto che mi sono addormentata solo quando era quasi giorno.

Il giorno seguente, mia cugina mi ha detto che, secondo le usanze, le persone importanti della città sarebbero venute a farmi visita e che sarebbe stato opportuno che mi fossi fatta trovare nel salone di buon’ora. Ero sofferente e rattristata e per nulla disposta a ricevere tutta quella gente, ma, a dir la verità, il mio rifiuto era dovuto anche a una civetteria. Durante la traversata del deserto, l’ardore del sole, la polvere, l’asprezza del vento che soffiava dal mare mi avevano bruciato il viso e le mani. La pomata che la gentile signora Najana mi aveva dato, riduceva il rossore e faceva tornare la mia pelle al suo stato naturale, ma io desideravo attendere altri quattro o cinque giorni prima di presentarmi. I primi due giorni era stata accettata la scusa dell’indisposizione, ma il terzo giorno la giustificazione aveva dato origine a delle voci. Il signor Durand, che conosceva bene lo spirito degli Arequipegni, mi ha consigliato di farmi vedere, se non volevo correre il rischio di alienarmi la benevolenza degli abitanti. I popoli primitivi sono così, la loro ospitalità ha qualcosa di tirannico.

A Islay avevo dovuto restare al ballo fino a mezzanotte, anche se ero sfinita, ad Arequipa, malgrado le sofferenze del viaggio e il dolore che sentivo per la morte della nonna, dovevo ricevere tutta la città il terzo giorno dopo il mio arrivo.
Mi hanno confezionato in fretta e furia un abito nero e mi sono presentata nel vasto salone vestita a lutto, come tutta la famiglia. La tristezza del mio animo superava quella dei vestiti. In Perù, c’è l’usanza che le donne di alta classe, quando arrivano in una città dove sono straniere, restino in casa un mese a ricevere le visite. Trascorso questo tempo, esse escono per restituirle. Mia cugina Carmen rispetta rigorosamente l’etichetta e, pensando che anch’io vi attribuissi la stessa importanza, mi ha istruita con cura, affinché mi conformassi. Ma in questa circostanza, il giogo del costume mi pareva troppo pesante e ho deciso di affrancarmi. E poiché neanche mia cugina amava ricevere visite, ha plaudito alla rapidità con cui me ne sono liberata. Lei non ne sarebbe stata capace.

L’indomani del mio arrivo ad Arequipa ho scritto allo zio che mi trovavo a casa sua, che la mia salute non mi permetteva di andarlo a trovare a Camana e che aspettavo il suo ritorno con la più viva impazienza. Passati quindici giorni senza avere risposta, cominciavo ad essere preoccupata. Lo era anche mia cugina, che temeva che quel silenzio significasse disapprovazione della sua condotta nei miei riguardi. Il modo d’agire dello zio rinnovava l’agitazione che il mio arrivo aveva prodotto fra i suoi amici e nemici: gli uni dicevano che aveva paura di me, gli altri pensavano che preparasse qualcuno dei suoi tiri per incastrarmi. Gli allarmisti arrivavano a dire che avrebbe persino potuto farmi arrestare.
La prima risposta dello zio ha ottenuto il risultato che probabilmente si attendeva. Nella lettera mi testimoniava benevolenza e ricordava con grande riconoscenza i servizi resigli da mio padre. Ho creduto che il suo cuore fosse aperto al mio affetto e che avrei potuto contare sulla sua giustizia, ma bisognava essere ignorante del mondo come lo ero io per lasciarmi catturare dalle sue belle parole.
Ero talmente occupata a fare e ricevere visite, a scrivere, a vedere tutte le cose interessanti del paese, che il mio tempo passava rapidamente. Arrivata ad Arequipa il 13 settembre, il 18 dello stesso mese ho sentito, per la prima volta in vita mia, un terremoto. Era quello passato alla storia per i suoi disastri, che ha raso al suolo Tacna e Arica.

La prima scossa ha avuto luogo verso le sei del mattino ed è durata due minuti. Sono stata svegliata di soprassalto e quasi gettata giù dal letto. Credevo di essere ancora sulla nave sballottata dalle onde e non avevo per nulla paura, ma la mia serva negra si è alzata di colpo gridando: “Senora! temblor! temblor!” Poi ha aperto la porta, è uscita in cortile e io mi sono lanciata di corsa dietro di lei con la vestaglia sulle spalle. I movimenti erano così violenti che eravamo obbligate a gettarci a terra per non cadere. Anche la persona più coraggiosa sarebbe stato assalita dallo spavento a sentire il suolo agitarsi così e a vedere le case oscillare. Tutti gli schiavi erano nel cortile, in ginocchio, a pregare, impietriti dal terrore e rassegnati a morire.  

Sono tornata a letto e mia cugina mi ha seguita poco dopo. La paura aveva alterato i suoi lineamenti. “Ah, Florita, che terribile terremoto! Sono sicura che una parte della città è distrutta. Un giorno mi succederà di restare sepolta sotto le rovine della mia vecchia stamberga. Voi che non siete abituata a simili convulsioni, che effetto avete provato?”
“Cara cugina, ho creduto di essere ancora sulla nave. È così che si sentono i movimenti delle onde. Ho avuto paura solo quando, in cortile, ho visto le case inclinarsi verso di me, il selciato che si muoveva e il cielo che vacillava, come quando si è in mare. Allora ho capito lo spavento da cui è colto l’uomo in presenza di un cataclisma che gli fa sentire fino in fondo la sua impotenza. Sono frequenti questi terremoti?
“Certe volte ce ne sono tre o quattro in un giorno ed è raro che passi una settimana senza che ne abbiamo uno più o meno forte. È a causa della vicinanza con il vulcano.”
Seduta sul mio letto a fumare cigaritos , donna Carmen è rimasta a parlare con me delle innumerevoli disgrazie che i terremoti hanno causato al paese.  

Verso le sette, abbiamo udito un rumore sordo, che sembrava venire dalle viscere della terra: era di nuovo la voce del sisma! Mia cugina ha gettato un grido di spavento e si è precipitata fuori della stanza. In quel momento, io avevo gli occhi fissi su di una crepa abbastanza sottile che si era formata al centro della volta. Di colpo, l’ho vista aprirsi e dalla volta si sono staccate delle  enormi pietre. Ho creduto che mi sarebbero crollate in testa e sono fuggita  spaventata. Questa scossa è stata meno forte della prima e, quando è cessata, siamo rientrati ed io mi sono rimessa a letto, tutta intirizzita. Mia cugina si è di nuovo accomodata vicino a me e l’espressione del suo viso faceva paura. “Che paese orribile! – ha gridato con voce furente – e dire che sono condannata a viverci!”
“Cugina, se per voi è così orribile, perché ci rimanete?”
“Per la più dura delle leggi, Florita, quella della necessità. Chi non possiede una fortuna dipende dagli altri, è schiavo, e deve vivere dove il padrone lo lega.” Dicendo questo, ha digrignato i denti con un gesto di rivolta. Questo provava che non era fatta per essere schiava.

Mentre la guardavo con un sentimento di superiorità che non riuscivo a reprimere, le ho detto: “Cugina, io possiedo ancora meno ricchezze di voi, eppure ho voluto venire ad Arequipa ed eccomi qui!” “Che cosa volete darmi a intendere?” mi ha domandato con un’espressione di gelosia. “Che non esiste libertà senza volontà. Chi ha ricevuto da Dio una volontà forte, che gli permette di superare gli ostacoli, è libero. Chi ha una volontà debole si scoraggia, cede davanti alle avversità, è schiavo e lo sarebbe anche se la fortuna bizzarra lo mettesse su un trono.”
Mia cugina non ha saputo cosa rispondere. Sentiva istintivamente che avevo ragione, anche se non riusciva a spiegarsi che cosa mi desse la forza di usare un simile linguaggio. Mi ha guardata a lungo in silenzio, disegnando nell’aria, con il fumo del sigaro, festoni e figure fantastiche, che io seguivo meccanicamente con l’occhio.

“Mia cara Florita, voi sostenete che basta avere una volontà ferma per essere liberi, proprio voi, donna vile, schiava delle leggi, dei pregiudizi, soggetta a mille infermità e di una debolezza fisica che vi rende incapace di lottare contro il minimo ostacolo, voi avete il coraggio di enunciare un simile paradosso. Ah, Florita! Come si vede che non siete stata sottomessa al giogo umiliante di un marito duro e tirannico; obbligata a piegarvi alla sua volontà capricciosa, a sopportare la sua ingiustizia, il suo disprezzo e le sue offese; che non siete stata dominata da una famiglia altezzosa né esposta alla spietata cattiveria degli uomini. Signorina senza famiglia, siete stata libera in tutte le vostre azioni e padrona assoluta di voi stessa. Eravate senza obblighi verso il mondo e la sua calunnia non poteva toccarvi. Florita, vi sono ben poche donne nella vostra felice posizione. Quasi tutte, dopo essere andate spose molto giovani, hanno avuto le loro facoltà sciupate, alterate dall’oppressione più o meno forte che i loro padroni hanno fatto pesare su di loro. Non sapete quanto le sofferenze, nascoste agli occhi del mondo e dissimulate persino con se stesse, indeboliscono la propria interiorità e paralizzano il morale anche dell’essere più dotato. Questi sono gli effetti che le sofferenze producono su noi donne appartenenti a una civiltà poco progredita. Per le donne europee le cose vanno diversamente?”
“C’è sofferenza dove c’è oppressione e oppressione dove c’è il potere di esercitarla. In Europa, come qui, le donne sono asservite agli uomini e soffrono ancora di più per la loro tirannia. Ma in Europa, più di qui, si incontra un maggior numero di donne alle quali Dio ha elargito forze morali sufficienti per sottrarsi al giogo.”

Dicendo queste parole ero trasportata dal sentimento che le ispirava e mia cugina è rimasta sorpresa dalla vivacità della mia voce e dall’espressione dei miei occhi.
“Florita, vi ammiro, siete splendida! Non ho mai visto una creatura che esprimesse i propri sentimenti con altrettanto calore. Siete un angelo ad accalorarvi per le sorti delle donne. Infatti, esse sono ben sfortunate. Tuttavia, cara amica, il vostro giudizio è incompleto. Per avere un’idea giusta dell’abisso di dolore in cui è costretta a vivere la donna, bisogna essere sposati o esserlo stati. Florita, il matrimonio è il solo inferno che io riconosca.”  
Il terremoto aveva completamente distrutto la città costiera di Tacna. Sono cadute tutte le case ed è crollata anche la chiesa, appena costruita e aperta al pubblico da quindici giorni. Sono morte diciotto persone e venticinque sono state gravemente ferite. La città  di Arica ha sofferto quasi altrettanto. La regione di Sama, i dipartimenti di Moquega e di Torata sono stati sconvolti, a Locumba la terra si è aperta e ha inghiottito edifici interi. In tutti questi luoghi sono morte o sono rimaste ferite molte persone. Arequipa ha avuto pochi danni, perché le case di questa città sono molto solide e per abbatterle ci vorrebbe un terremoto che radesse al suolo tutto il Perù. Questa scossa si è fatta sentire in forma attutita a Lima e a Valparaiso e non ha causato disastri. Bisogna aver abitato nei paesi in cui i terremoti sono frequenti per farsi un’idea del terrore provocato e dei danni subiti, quando la terra è scossa da convulsioni orribili, che la fanno sussultare in tutte le direzioni e la screpolano in tante voragini.



Il 24 settembre, per la festa della Madonna, la città è stata attraversata da una grande processione, di quelle in cui il clero del paese dispiega la più grande ostentazione. Queste processioni sono il solo divertimento del popolo. Le feste della chiesa peruviana danno un’idea di quello che dovevano essere i Baccanali e i Saturnali dei pagani. Anche nei tempi in cui c’era una profonda ignoranza, la religione cattolica non metteva in mostra delle buffonate così indecenti, delle parate così scandalosamente sacrileghe.

In testa alla processione sfilavano le bande dei musicisti e dei cantori, tutti mascherati. I negri e i sambo guadagnavano un reale per il ruolo sostenuto in questa farsa religiosa. La chiesa li vestiva in modo ridicolo, abbigliandoli da pierrot, da arlecchini, da citrulli e da altri  personaggi simili e dava loro delle brutte maschere colorate per coprirsi il viso. Quaranta o cinquanta danzatori facevano gesti e contorsioni di una cinica impudenza, molestavano le negre e le ragazze di colore, indirizzando loro ogni sorta di proposte oscene. Queste ultime, mischiandosi ai danzatori, cercavano di riconoscere le persone nascoste dietro alle maschere. Io distoglievo lo sguardo con disgusto da quella calca grottesca, da cui provenivano urla e risa convulse. Dietro ai danzatori veniva la Vergine vestita in modo sfarzoso, con il vestito di velluto decorato di perle e con dei diamanti sulla testa, al collo e alle dita. Era portata da venti o trenta negri e seguita dal vescovo con tutto il clero. Venivano poi i monaci di tutti i conventi, riuniti per marciare insieme nella santa processione. Le autorità chiudevano il corteo ufficiale e la massa del popolo ridente, vociante e tutt’altro che in preghiera seguiva in disordine.

Queste feste grandiose fanno la felicità degli abitanti del Perù e temo che non si riuscirà mai, neanche fra molto tempo, a rendere più spirituale il loro culto.
La sera, su piazza della Merced, all’aperto, si rappresentava un mistero. Mi dispiace di non essere riuscita a procurarmi il testo di questo dramma religioso, ma a giudicare da quel poco che ho visto e sentito raccontare, doveva essere un modello nel suo genere. Donna Carmen va pazza per ogni genere di spettacolo e io l’ho seguita alla rappresentazione, ma non siamo riuscite ad avvicinarci alla scena. I primi posti erano occupati dalle donne del popolo, che erano rimaste in attesa sin dal mattino. Non avevo mai assistito a un simile entusiasmo, si litigava per avere un piccolo angolo da cui poter vedere qualcosa. Con l’aiuto dei signori che ci avevano accompagnate, sono riuscita a salire su di un cippo e, dal mio piedistallo, abbracciavo con lo sguardo il magnifico quadro offerto dalla piazza. Sotto il portico della chiesa era stato innalzato una specie di palco, formato da alcune assi appoggiate su delle botti. La scena, scarsamente illuminata da quattro o cinque lampade quinqet era costituita da alcuni addobbi presi a prestito dal teatro della città. Per fortuna, gli argentei raggi della luna diffondevano un brillante chiarore e supplivano alle economie degli organizzatori. La rappresentazione di un mistero sotto il portico di una chiesa, davanti a una folla immensa, era una cosa nuova per me, figlia del XIX secolo, proveniente da Parigi. Lo spettacolo volgare di questo popolo ignorante e superstizioso, vestito di stracci, mi riportava al medioevo. Quelle facce bianche, nere o color del cuoio esprimevano una ferocia selvaggia, un fanatismo esaltato. Non posso dire nulla sulla bellezza del dialogo perché le parole mi giungevano in modo imperfetto, ma il Mistero assomigliava abbastanza a quelli che venivano rappresentati con grande pompa nel  XV secolo,  nella sala del Palazzo di giustizia per l’edificazione del popolo di Parigi, a cui ci fa assistere anche Victor Hugo nella sua Notre-Dame. Grazie a di alcune parole colte al volo, alle spiegazioni fornitemi dai conoscitori del teatro e con l’aiuto della mimica degli attori, sono riuscita a capire l’insieme della rappresentazione scenica.

I Cristiani vanno a combattere i Turchi e i Saraceni nella loro terra, per riportarli alla vera fede. I Musulmani si difendono con tenacia e hanno dalla loro il vantaggio del numero. I Cristiani stanno per soccombere e si fanno il segno della croce quando arriva fra di loro la Vergine, al braccio di San Giuseppe e con un lungo seguito di fanciulle celestiali. L’apparizione divina riaccende l’entusiasmo dei Cristiani che, all’improvviso, si avventano sui Musulmani gridando: “Miracolo! Miracolo!” Questi ultimi, pietrificati, sembrano aver dimenticato l’uso delle armi e il loro stupore è abbastanza motivato dalla vista di quella folla di belle ragazze, con la pelle di tutte le sfumature e la testa cinta da un’aureola di carta gialla, che si mescolano ai soldati. I Musulmani temono di ferire queste urì del paradiso e mi sembra che ci sia slealtà, da parte dei Cristiani, nell’approfittare di questo momento per piombare su di loro. In breve, il Sultano e l’imperatore dei Saraceni sono oltraggiosamente battuti e spogliati delle loro insegne del potere. Nella disgrazia, essi preferiscono essere re cristiani piuttosto che monarchi detronizzati, implorano la misericordia della Vergine e si fanno battezzare insieme a tutti i loro soldati.

Ho avuto l’impressione che la gloria di questa grande vittoria fosse dovuta più alle ancelle della santa Vergine che ai soldati di suo figlio. Comunque sia, la Vergine sembra estasiata da questa grande conversione di massa, fa molte gentilezze al sultano e all’imperatore, nomina il primo patriarca di Costantinopoli e il secondo arciprete di Mauritania, lasciando loro il potere temporale. L’uno e l’altro giurano su un crocifisso portato su un piatto d’argento, di garantire al clero cattolico la decima nei loro vasti domini e l’obolo di San Pietro al papa di Roma. A un segno della Vergine il coro delle fanciulle intona inni e cantici, a cui rispondono, a squarciagola, le voci roboanti dei soldati turchi, cristiani e saraceni. Poi ci si mette a malmenare gli Ebrei, che si trovano in gran numero nell’armata musulmana, dove sono accorsi da tutte le parti per comprare le spoglie dei Cristiani. Poiché gli Ebrei non si vogliono convertire, i Cristiani e i nuovi convertiti li picchiano, prendono loro i soldi e i vestiti dandogli in cambio di stracci. Queste scene grottesche sono coperte da applausi. Poi, ricominciano i cantici, nel corso dei quali l’Imperatore e il Sultano vengono spogliati delle loro empie vesti e rivestiti in gran pompa dalla Vergine degli abiti sacerdotali della loro nuova carica. Quindi arriva Gesù Cristo insieme a San Matteo, si ferma davanti alla madre e benedice i due eserciti ormai fusi in uno solo. Infine si apparecchia la tavola alla quale siedono, in ordine gerarchico, Gesù Cristo, la santa Vergine, san Giuseppe, san Matteo, i generali cristiani, l’imperatore dei Saraceni e il Sultano.

Vi sono tredici coperti e un Ebreo scivola furtivamente verso il tredicesimo posto, rimasto vuoto, per approfittare della cena.     Mentre Gesù spezza il pane e fa passare il calice ai commensali, ci si accorge dell’inganno. Immediatamente, l’Ebreo viene strappato dal suo posto e appeso in alto – almeno in effigie – dai soldati. Intanto, la cena continua e l’attenzione è catturata dall’azione di Gesù Cristo che, rinnovando il miracolo delle nozze di Cana, trasforma l’acqua in vino delle Canarie. In realtà, c’è un negretto nascosto sotto il tavolo che sostituisce abilmente l’anfora dell’acqua con un’altra contenente vino. Durante il pasto, il coro delle  vergini canta degli inni. Termina così la farsa che ho tentato, seppure in modo imperfetto, di descrivere.    
Il popolo, ebbro, batte le mani, fa salti di gioia e grida con tutte le sue forze: “Viva Gesù Cristo! viva la santa Vergine! viva nostro signore don José! viva nostro signorissimo il papa! Viva! viva! viva!”.

È con questi mezzi che i pregiudizi dei popoli dell’America del Sud sono tenuti in vita. Il clero ha aiutato la rivoluzione, ma ha conservato il potere e lo conserverà ancora a lungo.
Arequipa è una città dell’interno, che offre risorse molto limitate al commercio e gli stranieri che, come in tutte le altre colonie del sud America vivono di commercio, qui sono molto pochi.
L’origine della città è avvolta nella leggenda. In una cronaca delle tradizioni indiane conservata a Cuzco, si legge che, verso il XII secolo della nostra era, Maita Capac, il sovrano della città del sole, fu detronizzato. Egli si sottrasse ai nemici attraverso la fuga, andò vagando per le foreste e sulle cime nevose delle montagne, insieme a qualche compagno. Il quarto giorno, sfinito dalla stanchezza e ridotto in fin di vita dalla fame e dalla sete, si fermò ai piedi del vulcano. All’improvviso, cedendo a un’ispirazione divina, Maita piantò in terra la sua lancia, gridando: “Arequipa!”, parola che, in quechua, significa ‘Mi fermo qui’. Quando si girò verso i compagni, vide che solo in cinque l’avevano seguito, ma l’Inca aveva ormai fede soltanto nella voce di Dio e persistette nella sua decisione. Gli uomini costruirono le loro abitazioni intorno alla lancia, sul fianco del vulcano circondato da ogni parte dal deserto. Come altri conquistatori e fondatori di imperi, anche Maita era stato solo il cieco strumento dei segreti  disegni della Provvidenza. Molte città progredite devono la loro grandezza ai propri meriti, ma anche a cause fortuite, che non sembrano avere spiegazioni razionali.

Arequipa si trova a 16°13’2’’ di latitudine sud, ma la sua altitudine sul livello del mare e la vicinanza delle montagne ne rendono il clima temperato. La città è posta al centro di una piccola vallata di incantevole bellezza, larga non più di una lega e lunga non più di due. Chiusa dalle montagne su ogni lato, è bagnata dal Chile, la cui sorgente è ai piedi del vulcano. Il rumore di questo torrente ricorda quello del Gave dei Pirenei. Il letto è curioso, molto largo in alcuni punti e stretto in altri, pieno di pietre enormi o coperto di ciottoli, a tratti offre ai piedi delle ragazze una sabbia morbida e uniforme. Il Chile assomiglia a un torrente in piena dopo la stagione delle piogge, mentre è quasi sempre in secca durante l’estate. La vallata è coltivata a grano, mais, orzo, alfa e ortaggi. Si vedono poche case per le vacanze. In Perù si è troppo occupati dagli intrighi per amare la vita di campagna.
La città occupa una vasta area della vallata e, vista dalle alture di Tiavalla, sembra occuparne una ancora più grande. Di lassù, si ha l’impressione che solo una striscia sottile di terra la separi dai piedi delle montagne. La massa di case bianche, la moltitudine di cupole che brillano al sole nel verde della valle e nel grigio delle montagne, producono un effetto impensabile. Il viaggiatore che contempla per la prima volta Arequipa da Tiavalla è portato a immaginare che vi si nascondano degli esseri di una specie diversa che conducono un’esistenza misteriosa, sotto la protezione del gigantesco vulcano incapace di far loro del male.

Il vulcano di Arequipa, isolato e perfettamente conico, è uno dei monti più alti della catena della Cordigliera. Il suo colore grigio uniforme gli dà un’aria triste. La cima è quasi sempre coperta di neve, il cui strato diminuisce fra il sorgere e il calare del sole. Talvolta, specialmente di sera, il vulcano emette fumo – io ho visto anche delle fiamme – e quando rimane a lungo senza fumare ci si aspetta un terremoto. La sommità è spesso avvolta dalle nuvole, che danno  l’impressione che essa sia tronca, anche se si distinguono perfettamente le sue zone iridescenti. La massa aerea dalle mille sfumature, appoggiata sul cono di un solo colore, che somiglia a un gigante che nasconde fra le nuvole la testa minacciosa, è uno degli spettacoli più meravigliosi che la natura offra all’uomo.       
Il vulcano non ha nome. Si trova a 12.000 piedi sul livello del mare e le due montagne più vicine, che si trovano tuttavia a una certa distanza, una per parte, appaiono enormi. Una si chiama Pichain Pichu e l’altra Chachaur e sono entrambe vulcani spenti.
Quando Pizarro scoprì Arequipa, la fece diventare una delle sedi del governo e vi stabilì anche una sede vescovile. In epoche diverse, i terremoti sono stati causa di disastri spaventosi. Quelli del 1582 e del 1600 distrussero quasi completamente la città e quelli del 1687 e del 1785 non furono da meno.

Le strade di Arequipa sono ampie, ben lastricate, si incrociano ad angolo retto e nel mezzo hanno un canale di scolo. Quelle più importanti hanno il marciapiede ricoperto di grandi lastre di pietra bianche. Sono tutte ben illuminate perché ogni proprietario ha l’obbligo di mettere un lampione davanti alla propria porta, altrimenti viene multato. La piazza principale è spaziosa: sul lato nord c’è la cattedrale, di fronte ci sono il municipio e il carcere militare. Sugli altri due lati vi sono delle grandi abitazioni private. Tutti gli edifici, eccetto la cattedrale, hanno delle arcate che ospitano botteghe di diversi tipi. La piazza è usata per il mercato, per le feste, per le parate e altro. Il ponte sul Chile è una costruzione rozza, che non sembra in grado di resistere alla forte corrente di certi periodi dell’anno.
 
Ad Arequipa vi sono molti conventi e ognuno di essi ha una bellissima chiesa. La cattedrale è molto grande, buia e con uno stile architettonico pesante. Santa Rosa, Santa Catalina e Santo Francisco sono notevoli per l’altezza e la bellezza delle loro cupole. In tutte le chiese vi sono grottesche figure di legno o di gesso raffiguranti gli idoli del cattolicesimo peruviano e alcuni dipinti eseguiti con una tale rozzezza da far apparire assurdi i santi rappresentati.

Sotto questo aspetto, la chiesa dei Gesuiti è un’eccezione, perché in essa i fedeli possono pregare davanti a immagini più decorose dei santi. Prima dell’indipendenza, le chiese erano riccamente addobbate con candelabri, balaustre, pale d’altare d’argento e ornamenti d’oro, metalli usati con più esagerazione che buon gusto, oggetti preziosi che, forse, la fede non riuscirà più a proteggere. Alcuni presidenti e capi di partiti politici, in lotta fra loro, dopo aver svuotato le casse dello stato, non si farebbero scrupolo di spogliare le chiese dei loro tesori e di farli fondere per dare la paga ai soldati e soddisfare i vizi dei generali. Finora, i preziosi addobbi sono stati risparmiati, ma in futuro potrebbero subire questa sorte. Durante la recente guerra fra Orbegoso e Bermudez correva voce che le statue della Vergine sarebbero state derubate dei loro gioielli.

Arequipa ha un ospedale, un manicomio e un orfanotrofio e i tre edifici sono abbastanza mal tenuti. Ho visitato l’ospizio dei trovatelli e quello che ho visto non mi ha certo rallegrata. È penoso vedere quelle povere creaturine nude, magre, in uno stato deplorevole.  Ci si considera soddisfatti se, per assolvere gli obblighi di carità, si dà a quei bambini quel tanto che basta a farli sopravvivere miseramente. Inoltre, essi non ricevono alcuna educazione né istruzione, non imparano un mestiere e, a causa di questa criminale negligenza, quelli che sopravvivono sono costretti a mendicare. Mi ha colpita il modo ingegnoso in cui queste vittime vengono accolte al brefotrofio. Esse vengono lasciate dentro a una scatola a forma di culla, aperta verso l’esterno in modo che la sfortunata madre possa abbandonare il bambino senza essere vista dall’interno e senza l’obbligo di rivelare la propria identità.   

Le case, di bella pietra bianca, sono molto solide. A causa dei terremoti esse hanno un solo piano. Sono generalmente comode e spaziose, con un ampio portone al centro della facciata, le finestre senza vetri protette da sbarre e i soffitti a volta. Vi sono tre cortili: sul primo si affacciano le stanze da letto, gli uffici e la sala dei ricevimenti. Nel secondo, al centro del quale c’è un giardino, ci sono la sala da pranzo con una veranda aperta adatta al clima, la cappella, la lavanderia e la dispensa. Sul terzo cortile, in fondo, si aprono gli alloggi degli schiavi e la cucina. Lo spessore dei muri delle case varia dai cinque ai sei piedi e le stanze, malgrado il soffitto a volta, sono molto spaziose. Alcune pareti sono tappezzate fino a mezza altezza, altre sono imbiancate. Il soffitto a volta fa somigliare le stanze a delle cantine e il biancore totale è monotono. Il mobilio è massiccio. I letti, i cassettoni, i tavoli, le sedie sono fatti per non essere mai spostati. Gli specchi hanno cornici di metallo e le tende e la carta da parati sono privi di gusto. Per alcuni anni, i tappeti inglesi sono stati così economici che tutti ne hanno uno sul pavimento. Nessuna stanza ha il parquet.
Gli Arequipegni amano il cibo, ma non coltivano il piacere del mangiare bene. La loro cucina è disgustosa, il cibo è cattivo e l’arte culinaria è ancora molto primitiva. La valle di Arequipa è molto fertile, ma gli ortaggi sono di qualità scadente. Le patate non sono farinose, i cavoli, la lattuga e i piselli sono duri e senza sapore, la carne è secca, il pollame è duro come se fosse uscito direttamente dalla bocca del vulcano. Il burro e il formaggio sono trasportati da lontano e non arrivano mai freschi, lo stesso vale per la frutta e il pesce, che vengono dalla costa. L’olio usato per cucinare è rancido, lo zucchero non è raffinato, il pane è indigesto. In breve, non c’è niente di buono.    
La colazione è alle nove e consiste in montone arrosto, così poco appetitoso che io non sono mai riuscita a mangiarlo, riso e cipolle - le cipolle, crude o cotte, sono usate dappertutto - e cioccolata. Il pranzo, servito alle tre, comincia con una olla podrida, conosciuta in Perù come puchero, composta da una miscela di ingredienti male assortiti: manzo, montone e strutto, bolliti insieme al riso, a sette o otto tipi di verdure e a tutti i frutti che capitano a tiro, fra cui mele, pere, pesche, prugne e uva. La vista, l’odore e il sapore di questo rustico intruglio sono sgradevoli quanto le note discordanti suonate da un’orchestra. Il resto del pasto è costituito da gamberi, serviti con pomodori, riso, cipolle crude e peperoncino; da vari tipi di carne cucinati con uva, pesche e zucchero; da pesce con il peperoncino; da insalata con cipolle crude, uova e peperoncino. Quest’ultimo, come le cipolle, è aggiunto a tutti i piatti, insieme ad altre spezie che bruciano la bocca.

Solo un palato completamente insensibile potrebbe sopportarli. Di solito si beve acqua. La cena è alle otto e consiste nello stesso tipo di portate del pranzo.
Anche a tavola manca la finezza. In molte case c’è un solo bicchiere per tutti i commensali e i piatti e le posate sono sporchi. E questo non solo per colpa dei servi, perché i padroni sono tali e quali gli schiavi. È considerata buona educazione scegliere il boccone migliore dal proprio piatto e offrirlo con la forchetta a qualcuno a cui si vuol fare una gentilezza. Gli Europei sono rimasti così scandalizzati da questa abitudine che essa sta cadendo in disuso. Non si viene invitati molto spesso a pranzo perché la vita è cara, ma è di moda invitare le persone ai ricevimenti serali. La domenica, a casa di mio zio c’era un pranzo per la famiglia, a cui venivano invitati anche gli amici intimi. La sera venivano serviti il tè e la cioccolata e si mangiavano i dolci. Le sole cose che mi piacevano erano le paste fatte dalle suore e, grazie alle mie numerose conoscenze, non ne ero mai senza e potevo fare dei deliziosi spuntini, a qualsiasi ora.       

Gli Arequipegni sono appassionati di ogni genere di spettacolo, affluiscono con uguale entusiasmo alle rappresentazioni teatrali e religiose e la loro totale mancanza di educazione li rende facili da accontentare. L’edificio teatrale è di legno ed è così mal costruito che piove dentro. È troppo piccolo per il numero di abitanti e spesso non si trova posto. La compagnia, rifiutata dai teatri spagnoli è formata da sette o otto attori più due o tre Indiani ed è molto scadente. Il gruppo interpreta tutti i generi teatrali, le commedie, le tragedie e le opere. Sconcia Calderon e Lope de Vega e rovina a tal punto la musica da dare sui nervi. Malgrado ciò, riscuote gli applausi del pubblico. Sono andata a teatro quattro o cinque volte e ogni volta si rappresentavano tragedie. Gli attori, non possedendo costumi appropriati, si avvolgevano in vecchi scialli di seta.
Altri spettacoli che attraggono la folla sono i combattimenti dei galli, le danze dei funamboli sulla corda e le prove di forza compiute dagli Indiani. Un acrobata francese e sua moglie hanno incassato ben trentamila piastre.

La chiesa peruviana sfrutta questo gusto popolare per aumentare la sua influenza sul popolo e, oltre alle grandi processioni per sottolineare le festività solenni, tutti i mesi vi sono spettacoli in strada. Una volta sono i Francescani che vanno di sera a fare una colletta per i defunti, una volta sono i Domenicani che sfilano in onore della Vergine, una volta c’è la processione per il Bambino Gesù, una volta c’è quella per tutti i santi, non si finisce mai. Ho già descritto un corteo religioso, perciò non annoierò il lettore parlando di altri. Le processioni per i santi sono meno imponenti, ma ugualmente grottesche e le indecenti buffonate che divertono il popolo sono altrettanto scandalose. Hanno tutte una cosa in comune: i bravi monaci chiedono sempre soldi e il popolo glieli dà.
È durante la Settimana Santa che hanno luogo le feste più selvagge del cattolicesimo peruviano. In tutte le chiese di Arequipa si costruiscono dei mucchi di terra e di pietre, che simboleggiano il Calvario, e vi si piantano dei rami di ulivo. Su di essi il Venerdì Santo si rappresenta la Passione di Nostro Signore: il suo arresto, la flagellazione e la crocifissione, con l’accompagnamento di canti. Al momento della morte del Cristo, le candele vengono spente e regna il buio. Si può facilmente immaginare quello che succede negli angoli della chiesa affollata, data l’immoralità della popolazione…Ma Dio misericordioso ha dato ai monaci, suoi ministri, la facoltà di concedere l’assoluzione.

La seconda rappresentazione è la Deposizione. Una folla di uomini e donne, bianchi, neri e di colore, corre su per la collina emettendo urla strazianti, sradicando gli alberi e sparpagliando le pietre. Essi scacciano i soldati, afferrano la croce e tirano giù il corpo. Dalle ferite del Cristo di cartone comincia a uscire del sangue e la folla raddoppia le urla. La gente, i preti, la croce, i rami d’ulivo creano, nell’insieme, una scena di grande confusione, che non ci si aspetterebbe di trovare in un luogo di culto. La rappresentazione termina quasi sempre con il ferimento più o meno grave di qualcuno.
La sera, gli abitanti si riversano in strada e, recitando preghiere, raggiungono le chiese dove partecipano alla via crucis. I più devoti si gettano in ginocchio e baciano il suolo. Alcuni si percuotono il petto o si coprono il capo di stracci, altri camminano a piedi nudi reggendo sul dorso la croce, altri ancora barcollano sotto il peso di lastre di pietra. In ogni casa, lo zelo superstizioso spinge i fanatici a follie assurde. In cerca di guida, essi si rivolgono al soprannaturale, non alla propria coscienza.

Alla messa della domenica gli uomini restano in piedi a parlare e a ridere fra di loro e fissano le donne graziose inginocchiate davanti a loro, in parte nascoste dalle mantiglie. Le donne non hanno il libro di preghiere e si distraggono facilmente dal servizio. A volte esaminano quello che indossa la vicina o parlano con la serva negra seduta dietro di loro, a volte si sdraiano sul tappeto e dormono o fanno conversazione.
I monaci che celebrano la messa hanno un aspetto trasandato e gli Indiani che li aiutano sono scalzi e mezzi nudi. Due violini e una specie di zampogna suonano insieme all’organo in modo discordante. La musica è orribile e il canto è così stonato, che è impossibile assistervi per un quarto d’ora senza sentirsi irritati per il resto del giorno. Non è come in Europa, dove l’arte dà lustro alla sterilità del rito. In Perù la chiesa è solo un luogo dove le persone si incontrano.

Il grado di civiltà raggiunto da un popolo si riflette in ogni cosa. Ad Arequipa i divertimenti del carnevale non sono meno indecenti delle buffonate farsesche della Settimana Santa. Vi sono persone che si guadagnano da vivere tutto l’anno svuotando i gusci delle uova e riempiendoli di colore rosa, blu, verde, rosso e richiudendo l’apertura con la cera. Le signore si vestono di bianco, poi mettono alcune uova nel paniere, si siedono sul tetto di casa e le lanciano sui passanti. Questi ultimi, a piedi o a cavallo, sono armati degli stessi proiettili, che rilanciano verso le donne. Per rendere il gioco più divertente, le uova possono essere riempite di inchiostro, di miele, di olio e di altre cose disgustose. Mi sono state indicate due o tre persone che hanno perso un occhio in questo tipo di battaglia, ma, malgrado il loro esempio, gli Arequipegni continuano ad avere un entusiasmo appassionato per questo sport. Le signore mettono in mostra le numerose macchie sui loro vestiti e sono orgogliose di queste strane manifestazioni di galanteria. Anche gli schiavi partecipano al divertimento, tirando della farina, che è meno costosa. La sera vanno tutti nelle sale da ballo, dove si eseguono delle danze indecenti. Molte persone indossano dei costumi bizzarri, che hanno poco di caratteristico e i divertimenti vanno avanti per una settimana.

La popolazione di Arequipa e dei suoi sobborghi è fra i trenta e i quarantamila abitanti. Un quarto di essi sono bianchi, un quarto negri e meticci, una metà indiani. In Perù, come in tutto il Sud America, l’origine europea è considerata un titolo di nobiltà e, nel linguaggio degli aristocratici, i bianchi sono quelli che non hanno ascendenti negri o indiani. Ho visto alcune signore che passavano per bianche, pur avendo la pelle color panpepato, perché il padre era nato in Andalusia o a Valencia?. In questo modo le classi sociali sono formate da tre razze distinte: Europei, Indiani, Negri. Fra gli appartenenti  a quest’ultima classe, definiti ‘persone di colore’, sono compresi i meticci e gli schiavi, qualunque sia la loro razza, resi uguali dalla perdita della libertà.

Negli ultimi quattro o cinque anni, gli usi e i costumi del Perù sono molto cambiati. Oggi si sente enormemente l’influenza di Parigi, che solo un gruppo ristretto di famiglie ricche e antiche rifiuta di accettare. I loro membri somigliano a vecchi alberi rinsecchiti che sopravvivono per dimostrare, come le celle dell’Inquisizione, quanto sia progredito il resto della società. Le abitudini delle classi più elevate non sono diverse da quelle europee e gli uomini e le donne vestono allo stesso modo degli Europei.
Le donne seguono la moda fin nei minimi dettagli, anche se vanno a capo scoperto. Solo quando vanno in chiesa recuperano la severità del costume spagnolo tradizionale, compresa la mantiglia. I balli francesi stanno rimpiazzando il fandango, il bolero e le danze dei nativi, condannate dalla decenza. Nei salotti si cantano le nostre opere e la gente ha cominciato a leggere i romanzi. Fra poco, nessuno andrà più a messa se non vi si ascolterà della buona musica. Nel tempo libero, si passa il tempo a fumare, a leggere i giornali e a giocare a faraone. Gli uomini si rovinano con il gioco, le donne con l’acquisto di abiti.  

In genere, gli Arequipegni hanno un ingegno vivace, una grande facilità di espressione, una buona memoria, un carattere allegro e delle maniere nobili. Prendono la vita come viene e sono nati per gli intrighi. Le donne di Arequipa mi hanno colpita per il loro modo di essere superiori agli uomini. Non sono graziose come le loro sorelle di Lima, hanno modi di vita diversi  e un altro carattere, ma il loro atteggiamento orgoglioso e pieno di dignità è straordinario. A prima vista potrebbero sembrare fredde, ma quando le si conosce meglio, i loro sentimenti delicati e la loro mente sottile toccano l’animo. A differenza delle signore di Lima, obbligate dalla passione per gli intrighi e i divertimenti a passare il tempo fuori, esse stanno tranquillamente in casa e si tengono occupate. Confezionano i propri vestiti con una perfezione che sorprenderebbe le nostre sarte francesi. Ballano con grazia e decoro, amano la musica e spesso cantano come delle professioniste. Ne conosco quattro o cinque le cui voci fresche e melodiose sarebbero ammirate nei salotti parigini.
Il clima di Arequipa non è salubre. Il mal di testa, la dissenteria, i disturbi nervosi e, soprattutto, i raffreddori sono molto comuni.

Gli abitanti hanno la fissazione delle malattie, che sono una buona scusa per viaggiare di continuo. La causa della loro voglia di muoversi è la fervida immaginazione unita alla mancanza di istruzione. Solo un cambiamento d’ambiente può arricchire la loro mente, dare nuove idee ed emozioni fresche. Le donne in particolare vanno e vengono dai villaggi della costa - Islay, Camana, Arica - dove fanno i bagni di mare alle sorgenti di acqua termale, alcune delle quali, famose per le proprietà curative, si trovano anche nei pressi di Arequipa. Quella di Ura, le cui acque  sono verdi e caldissime, è particolarmente apprezzata. Non vi è nulla di più sporco e scomodo di queste cittadine balneari, dove la buona società va a fare i bagni, eppure sono molto frequentate e la gente spende volentieri un sacco di soldi per stare tre settimane o un mese in una di esse.

Le donne di Arequipa afferrano al volo ogni occasione per viaggiare, non importa se a Cuzco o a Lima, in Bolivia o in Cile e nessuna somma né fatica le scoraggia. Sono incline ad attribuire la preferenza delle giovani donne verso gli stranieri al gusto per i viaggi. Sposando uno straniero, esse sperano di realizzare il sogno lungamente accarezzato di visitare il paese dove è nato – Francia, Italia o Inghilterra – e questa prospettiva conferisce alle unioni un fascino che forse non avrebbero altrimenti. L’idea di viaggiare rende la lingua francese molto in voga tra le donne e molte la imparano nella speranza di averne un giorno bisogno. Nel frattempo, esse traggono grande piacere dalla lettura di alcuni dei nostri buoni libri e sviluppano la loro intelligenza, compensando la monotonia della vita che il paese offre. Anche gli uomini istruiti conoscono bene il francese.

Il Panthéon, un bel cimitero di recente costruzione, si trova a due leghe dalla città e occupa una vasta area sul pendio della collina di fronte al vulcano. Da lontano, l’alto muro bianco e merlato che lo circonda appare malinconico e bizzarro. All’interno, nel suo spessore sono state ricavate tre file di nicchie, nelle quali sono collocate le bare. L’apertura è chiusa da una pietra, sulla quale è appoggiata una lapide di marmo o di bronzo, con incisa a lettere d’oro un’iscrizione che commemora l’illustre maresciallo, il famoso generale, il venerabile parroco. Altri epitaffi più modesti elencano le virtù del morto, perché anche qui, come in tutti i cimiteri del mondo, non vi sono che bravi padri, amate spose e madri affettuose. Le parole, dettate dal sentimento del momento, esagerano nell'attribuire al morto virtù che non gli erano state riconosciute in vita.
I poveri sono sepolti in una fossa comune, che viene chiusa nello stesso modo quando si riempie. I Protestanti non sono autorizzati a essere sepolti qui. È solo da qualche anno che i morti non vengono più seppelliti nelle chiese e alcuni lo rimpiangono e comprano a caro prezzo un posto in una delle chiese dei conventi. Per questo la tomba di mia nonna si trova a Santo Domingo. In questo paese, con i soldi si è facilmente dispensati dagli obblighi della legge e della religione, anche se questi ultimi sono meno cari.

Quando ad Arequipa muore una persona ricca, oltre agli eredi gioiscono anche i monaci, che approfittano dell’occasione per vendere ad alto prezzo i loro abiti per avvolgere il corpo. È usanza farsi seppellire in abito monacale e per questo i buoni frati portano quasi sempre degli abiti nuovi, che contrastano fortemente con il resto dell’abbigliamento. Immediatamente dopo la morte il corpo, indipendentemente dal sesso, è avvolto in una di queste tuniche e deposto sul letto di morte per le visite di condoglianze, che durano tre giorni. I parenti più lontani assolvono ai doveri che competono a chi piange una perdita: stanno nella camera mortuaria a ricevere le persone in visita, vestite a lutto, che entrano salutando con la dovuta solennità i parenti seduti su di una predella, poi si ritirano in un angolo o si mettono a pregare vicino alla salma. Il corpo viene portato in chiesa a spalla, e allo stesso modo, dopo la cerimonia, è trasferito fuori dalla città e di lì un carro lo trasporta al cimitero.

Non vi sono carrozze ad Arequipa. Un tempo, le persone importanti si facevano condurre sulla portantina. A casa di mio zio ce n’è una, che era usata dalla nonna e che mio zio utilizza ancora quando non si sente bene. Somiglia a quelle che si usavano in Francia prima della Rivoluzione. Tutti si spostano a cavallo o sui muli e usano gli asini per portare carichi in montagna, dove gli Indiani impiegano i lama.  
Il lama è la bestia da soma della Cordigliera e gli Indiani lo usano per gli scambi commerciali con le vallate. Questo grazioso animale è un interessante oggetto di studio. Di tutte le bestie che hanno avuto a che fare con l’uomo, è la sola che sia stata capace di non umiliarsi. Il lama non permette di essere battuto o maltrattato e si rende utile solo a condizione che gli venga chiesto, non ordinato.

I lama si muovono in branchi, preceduti a distanza dagli Indiani che li guidano. Se si sentono stanchi, si fermano, e così fa l’uomo. Se la sosta è prolungata, l’Indiano, ansioso perché il sole tramonta, decide di implorare gli animali di andare avanti. Si va a mettere a cinquanta o sessanta passi di distanza, adotta una atteggiamento umile, protende le mani verso di essi in un gesto affettuoso e li guarda con tenerezza, mentre, con una pazienza che non mi stanco di ammirare e con la voce più dolce che si possa immaginare sussurra: “Ic, ic, ic, ic, ic…”. Se i lama sono disposti a rimettersi in viaggio, seguono mansueti e di buon passo l’Indiano, coprendo velocemente il percorso grazie alle loro lunghe gambe. Ma se sono di cattivo umore, non girano neanche la testa in direzione della voce che li chiama con affetto e pazienza. Restano immobili, l’uno accanto all’altro, in piedi o sdraiati e guardano il cielo con tenerezza e tristezza, tanto da far credere che siano coscienti dell’esistenza di un’altra vita, migliore di questa. Il lungo collo maestoso, il mantello lucente come seta, i movimenti timidi e flessuosi, danno loro un aspetto nobile e delicato che impone rispetto. Per questo i lama sono i soli animali al servizio dell’uomo che egli non osa colpire. Se qualche rara volta un Indiano arrabbiato cerca di ottenere con la forza quello che il lama non vuole concedere liberamente, l’animale alza il capo con dignità e, senza cercare di fuggire - il lama non è mai impastoiato o legato - si sdraia per terra e volge lo sguardo al cielo. Dai suoi begli occhi scorrono grosse lacrime, dal suo petto escono dei sospiri e, nello spazio di mezz’ora, al massimo tre quarti d’ora, muore. Fortunate creature che accettano la vita solo a patto che sia serena!

I lama sono molto importanti perché sono il solo mezzo di comunicazione con gli Indiani delle montagne. Tuttavia, si è tentati di credere che la superstiziosa reverenza di cui sono oggetto non sia dovuta solo alla loro utilità. A volte ne ho visti venti o trenta bloccare una delle strade più trafficate della città. I passanti davano loro una timida occhiata, poi tornavano da dove erano venuti senza protestare. Un giorno, un gruppo di una ventina di questi animali è entrato nel nostro cortile e vi è rimasto per sei ore. L’Indiano che li guidava era disperato e i nostri schiavi non potevano svolgere il loro lavoro, ma tutti sopportavano il disagio e non si sognavano di lanciare uno sguardo adirato nella loro direzione. Persino i bambini, che non hanno rispetto per nulla, non osano toccare i lama.   
Quando gli Indiani hanno bisogno di caricare un lama, due di loro gli si avvicinano, gli passano le mani sul corpo e gli coprono la testa in modo che non veda il carico che gli viene issato sul dorso. Se lo vedesse, l’animale morirebbe all’istante. Gli uomini devono poi compiere gli stessi movimenti per liberare l’animale dal carico. Se questo eccede un certo peso, la bestia si getta a terra e spira immediatamente. Sono animali molto frugali, una manciata di granturco basta loro per tre o quattro giorni. Eppure sono molto robusti, si arrampicano con agilità per le montagne, sopportano il freddo, la neve e ogni sorta di fatiche. Vivono a lungo.

Un Indiano mi ha detto di averne posseduto uno che aveva trentaquattro anni. Solo gli Indiani della Cordigliera hanno abbastanza pazienza e dolcezza con loro da riuscire a farli lavorare. Non c’è dubbio che, da questo compagno straordinario che la Provvidenza gli ha dato, l’indigeno peruviano ha imparato a morire quando gli si chiede di fare quello che non è disposto a fare. La forza morale che permette di sottrarsi all’oppressione attraverso la morte, così rara nella nostra specie, è molto comune fra gli Indiani del Perù, come avrò ancora occasione di dire.     
I primi giorni dall’arrivo dello zio li abbiamo passati a parlare. Non mi stancavo di ascoltarlo raccontare la storia della nostra famiglia. Deplorava il fato che gli aveva impedito di fare prima la mia conoscenza e mi parlava con una tale bontà da farmi dimenticare la sua condotta precedente e mi faceva credere di poter contare sul suo senso di giustizia nei miei confronti. Ma ahimè! Non ho tardato a dover ritornare sul mio giudizio. Un giorno parlavamo di affari di famiglia e lo zio parve voler conoscere il motivo che mi aveva spinta a venire in Perù. Gli ho detto che in Francia non avevo né genitori né ricchezza, perciò ero venuta a cercare soccorso e protezione dalla nonna, nel cui affetto e senso di giustizia avevo riposto tutte le mie speranze. Ella, però, era morta quando ero a Valparaiso.

Lo zio sembrava preoccupato dalla mia risposta e quello che ha detto mi ha lasciata impietrita per lo stupore e la delusione.
“Florita – ha affermato – quando si tratta di affari, io conosco solo la legge e metto da parte ogni altra considerazione. Voi mi domandate giustizia. Saranno gli atti che mi avete portato a determinarne la misura. Mi avete mostrato un estratto di battesimo, dal quale risulta che siete figlia legittima, ma non mi presentate l’atto di matrimonio di vostra madre. L’estratto di stato civile stabilisce che voi siete stata registrata come figlia naturale e questo titolo vi dà diritto a un quinto della successione di vostro padre. Per questo vi ho inviato il conteggio dei beni che egli ha lasciato e che io ero incaricato di amministrare. Avete visto che sono bastati appena a pagare i debiti che egli aveva lasciato in Spagna, molto tempo prima che andasse in Francia. Quanto alla successione di nostra madre, voi sapete, Florita, che i figli naturali non hanno alcun diritto sui beni degli ascendenti del padre e della madre. Così, io non vi devo nulla fino a quando non produrrete un atto legalmente valido che certifichi il matrimonio fra mio fratello e vostra madre.”

Lo zio ha parlato su questo tono per più di mezz’ora. La sua voce brusca e l’espressione del volto rivelavano che in quel momento egli era completamente posseduto dalla sua passione dominante. Era l’avaro descritto da Walter Scott, il padre di Rebecca che conta una ad una le monete d’oro nella borsa, prima di metterle via senza dare nulla a chi gliele ha fatte ritrovare. Oh! Com’è piccolo e avvilito l’uomo quando si lascia tiranneggiare dalle passioni che soffocano i suoi sentimenti naturali! Ero seduta sul sofà nello studio di don Pio e lui camminava su e giù per la stanza, parlando molto, come chi cerca di persuadere se stesso che non sta facendo una cattiva azione. Intuivo cosa stava accadendo dentro di lui e ne avevo pietà. I cattivi sono infelici. Bisogna compatirli. I vizi non sono congeniti, sono creati dalle istituzioni sociali e solo le anime elette si sottraggono al loro giogo.
“Zio –gli ho chiesto – siete convinto che io sia la figlia di vostro fratello?”.
“Senza dubbio, Florita. In voi si ritrovano i suoi tratti ed è impossibile dubitarne.”
“Voi credete in Dio, ogni mattina cantate le sue lodi e praticate con assiduità i riti religiosi. Credete che Dio possa consentire di abbandonare la figlia del fratello, di disconoscerla, di trattarla come un’estranea? Non pensate di infrangere la legge divina, la cui impronta è in tutti noi, rifiutando di restituire alla figlia l’eredità del padre? No, zio, ne sono convinta, voi non sarete sordo alla voce del cuore, non mentirete alla vostra coscienza, non rinnegherete Dio.”    
“Florita, gli uomini hanno fatto delle leggi che sono altrettanto sacre dei precetti di Dio. Io vi devo amare e vi amo, infatti, come figlia di mio fratello, ma poiché la legge non vi conferisce alcun titolo alla sua successione, non vi devo nulla di ciò che egli avrebbe ereditato. Vi spetta solo un quinto di ciò che egli possedeva al momento della morte.”
“Zio, il matrimonio di mio padre e mia madre è un fatto noto ed è stato sciolto solo dalla morte. Celebrato da un prete, come sapete, non è stato seguito, ne convengo, delle formalità prescritte dalle leggi umane, sono stata io la prima a dirlo. Ma sapreste, in buona fede, farvi forte dell’omissione di queste formalità per appropriarvi del pane dell’orfano? Pensate che mi sarebbero mancati i mezzi per supplire a queste formalità mancanti, se avessi avuto motivo di dubitare della vostra giustizia? Credete che mi sarebbe stato difficile ottenere da una chiesa spagnola un atto che regolarizzasse il matrimonio di mia madre? Con questo pezzo di carta in mano, voi avreste tentato invano di rifiutarmi la parte che spettava a mio padre, non avreste potuto privarmi di una lira. Prima della partenza, ho consultato diversi avvocati spagnoli e tutti mi hanno consigliato di munirmi di un documento di questo tipo e mi hanno indicato il mezzo per procurarmelo. Ebbene, zio, io ho respinto questi consigli e le mie lettere fanno fede delle mie parole: li ho respinti perché ho creduto al vostro affetto e volevo attribuire solo alla vostra giustizia l’eredità che mi spetta.”
“Ma Florita, non capisco perché vi ostinate a credermi ingiusto. Sono forse il depositario dei vostri beni? Avete il diritto di esigere una sola piastra?”
“E sia, zio, visto che vi trincerate dietro all’interpretazione letterale della legge avete ragione e io, come figlia naturale non ho diritto alla successione della nonna. Ma come figlia di quel fratello a cui dovete tutto, non avrei diritto alla vostra riconoscenza? Zio, è ad essa che faccio appello. Io non chiedo né a voi né agli altri coeredi gli ottocentomila franchi che ognuno di voi ha avuto come sua parte, non vi chiedo che un mezzo quarto di questa somma, appena sufficiente per permettermi di vivere in modo indipendente. I miei bisogni sono limitati, i miei gusti modesti. Non amo il mondo e il suo lusso. Con cinquecento franchi di rendita potrei vivere ovunque libera e felice. Questo dono, zio, esaudirà i miei voti e non voglio doverlo che a voi solo. Vi darò la mia benedizione e non mi basterà la vita per esprimere tutta la mia gratitudine.”

Dicendo queste parole, ero andata vicino a lui. Ho preso una delle sue mani e l’ho premuta forte sul cuore. La mia voce era rotta dal pianto e lo guardavo con un’espressione ineffabile di tenerezza, di ansietà e di riconoscenza, mentre attendevo, tremante, la risposta che egli sembrava meditare.
“Caro zio – ho aggiunto - voi consentite, non è vero, a rendermi felice? Ah! Che Dio vi accordi una lunga vita! La mia felicità e la mia gratitudine la riempiranno di dolcezza e di calma e vi ripagheranno grandemente di ciò che avrete fatto per me.”
Lo zio è emerso dal suo silenzio con un movimento brusco.
“Ma, Florita, come potete pensare una cosa simile? Come credete che possa darvi ventimila piastre? E’ una somma enorme!… Ventimila piastre!”
Non saprei spiegare l’effetto che ha avuto su di me l’asprezza di questa risposta. Quel che posso dire è che allo stato di eccitazione in cui ero dall’inizio del colloquio è subentrata un’indignazione così violenta che ho creduto fosse giunta la mia ultima ora. Ho passeggiato per qualche tempo nella stanza, senza poter parlare. Dai miei occhi sprizzavano lampi e i muscoli erano tesi. Non avrei neanche sentito cadere il tuono. Non so che cosa stesse dicendo lo zio, ero in uno di quei momenti in cui l’anima comunica con una potenza sovrumana.

Mi sono fermata davanti allo zio e, stringendogli forte il braccio e parlando con un tono di voce che non avevo mai usato prima, gli ho detto:
“Così, don Pio, voi respingete a sangue freddo e con premeditazione la figlia di quel fratello che vi ha fatto da padre, al quale voi dovete la vostra educazione, la vostra fortuna e tutto quello che siete? Per tutta riconoscenza, con quello che dovete a mio padre, voi che avete trecentomila franchi di rendita, mi condannate con freddezza a soffrire la miseria, mi abbandonate agli orrori della povertà e della disperazione, mi obbligate a disprezzarvi. Voi, che mio padre mi aveva insegnato ad amare, voi, il solo parente sul quale riposavano tutte le mie speranze! Ah, uomo senza fede, senza onore, senza umanità, io vi respingo a mia volta, non sono del vostro sangue e vi consegno ai rimorsi della coscienza. Non voglio più niente da voi. Domani tutta la città sarà a conoscenza della vostra ingratitudine verso la memoria di quel fratello che provoca le vostre lacrime ogni volta che pronunciate il suo nome, della vostra durezza nei miei riguardi e del modo in cui avete tradito la fiducia imprudente che avevo riposto in voi.”
Sono uscita dal suo studio e sono rientrata nella mia grande stanza dal soffitto a volta. Ero in uno stato di esasperazione e di sofferenza inesprimibili.

La notte non sono riuscita a gustare un istante di riposo. La febbre mi faceva ribollire il sangue, mi impediva di stare distesa sul letto e di stare ferma. Andavo e venivo nella camera e sono anche stata costretta a uscire in cortile per respirare l’aria fresca del mattino. Che sofferenza era la mia! La mia ultima speranza era distrutta! I membri della famiglia che ero venuta a cercare da così lontano manifestavano tutti le facce dell’egoismo, erano freddi e insensibili alle disgrazie altrui come tante statue di marmo! Mio zio, al cui affetto mi ero abbandonata, il solo che fosse vissuto con mio padre, dal quale era stato amato e della cui fiducia aveva goduto, si mostrava in tutta l’arida nudità della sua avarizia e della sua ingratitudine! Proprio lui che avrebbe dovuto più di altri compatire le mie sofferenze! È stato uno di quei momenti in cui i mali del mio destino si sono disegnati ai miei occhi in tutta la loro crudeltà.
Ero nata con tutti i vantaggi che eccitano la cupidigia degli uomini, ma essi mi si erano mostrati solo per farmi sentire l’ingiustizia che mi spogliava del loro godimento. Vedevo dappertutto abissi destinati a me, società umane organizzate contro di me, senza la sicurezza di un po’ di simpatia da qualche parte.
“Oh, padre! – ho gridato involontariamente - quanto male mi avete fatto! E voi, madre, io vi perdono, ma la serie di mali che avete accumulato sulla mia testa è troppo pesante per le forze di una sola creatura!”
 
  
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