Siamo uscite da Santa-Catalina martedì 1° aprile perché mia zia, preoccupata per il marito e per la casa, non riusciva più a controllare la sua impazienza. Tutti dicevano che San-Roman, spaventato dal numero delle truppe di Nieto e dalla loro capacità di resistenza, non avrebbe osato avvicinarsi e sarebbe rimasto a Cangallo, fino a quando Gamarra non gli avesse inviato rinforzi da Cuzco. Il generale, preoccupato dall’arrivo di Orbegoso, condivideva l’opinione della folla e si spazientiva della lentezza del nemico, anche se non dava disposizioni per riceverlo. Il monaco intonava già canti di vittoria sul giornale e i begli spiriti scrivevano canzoni trionfali in onore di Nieto, Carillo, Morant e lamenti per San-Roman. Tutto questo era ridicolo e mi ricordava i cantori di strada di Parigi, dopo le giornate di Luglio.
Quel martedì era giorno di festa ed era giorno di paga per l’esercito. Per farsi benvolere dai soldati, Nieto aveva dato loro il permesso di divertirsi ed essi ne avevano approfittato ampiamente. Erano andati nelle chicherias a bere la chica, a cantare a squarciagola e a passare la notte nell’ubriachezza e negli eccessi. Del resto, non facevano che seguire l’esempio dei capi, che, dal canto loro, erano tutti riuniti a bere e giocare. Dato che erano convinti che San-Roman non avrebbe osato avanzare prima di aver ricevuto rinforzi, non avevano fatto preparativi e non hanno preso precauzioni. Negli avamposti regnava la stessa negligenza. Mercoledì 2 aprile, mentre i difensori della patria dormivano profondamente e smaltivano il vino della vigilia, si era venuto a sapere dell’arrivo del nemico. Ma la fiducia degli abitanti nelle notizie era piena di dubbi perché in passato erano stati tratti in inganno tante volte. In ogni caso, sono saliti tutti sui tetti.
Alle due del pomeriggio non si era ancora visto nulla, a parte quello che l’immaginazione di ognuno metteva nella lente del cannocchiale. Ci si cominciava a stancare: il sole bruciava, il vento secco e costante rendeva il caldo ancora più insopportabile e soffiava la polvere in faccia agli spettatori. Solo un osservatore intrepido come me riusciva a stare al suo posto. Mio zio mi gridava dal cortile che avrei perso la vista per il riverbero del sole e che San-Roman quel giorno no sarebbe arrivato, ma io non tenevo in alcun conto i suoi consigli.
Ero seduta sul bordo di un muretto, sotto a un grande ombrello rosso che mi proteggeva dal sole. Contemplavo il vulcano e la valle con un cannocchiale Chevallier, seguivo le mie fantasticherie e non pensavo più a San-Roman, quando sono stata richiamata alla realtà da un negro che mi gridava: “Signora, eccoli!” Mentre udivo mio zio salire, ho puntato il cannocchiale nella direzione indicatami e ho visto distintamente due linee nere in cima alla montagna, vicino alla bocca del vulcano. Le due linee, sottili come un filo, scendevano verso il deserto descrivendo delle curve a destra e a sinistra e facendo degli zig-zag man mano che avanzavano. Somigliavano agli stormi di uccelli migratori che compongono nell’aria una serie ininterrotta di punti neri e variano all’infinito la disposizione del volo.
Scorgendo il nemico, gli abitanti hanno emesso un grido di gioia. Il monaco e Nieto li avevano messi in una difficile condizione, dalla quale volevano uscire ad ogni costo. Anche nel campo di Nieto la gioia è stata grande. Gli ufficiali e i soldati si sono rimessi a bere la chicha e a cantare inni di vittoria, celebrando il funerale degli avversari che stavano per essere sbaragliati e annientati. Verso le tre, Althaus è entrato nel cortile a briglia sciolta. Quando ha visto che eravamo tutti sul tetto della casa, mi ha chiamata con l’espressione di un uomo preoccupato. Io sono scesa e ho promesso allo zio di tornare a comunicargli le notizie apprese.
“Cugina, non mi sono mai trovato in un momento così critico. Pensate che questi miserabili sono tutti ubriachi, non c’è un ufficiale in condizione di dare ordini né un soldato in grado di caricare il fucile. Se San-Roman ha una buona spia, siamo perduti. In due ore sarà padrone della città.”
Sono risalita e ho comunicato allo zio i funesti presagi di Althaus. “Me l’aspettavo – ha detto – questi uomini sono degli incapaci, perderanno la causa e forse non sarà un gran male per il paese.”
Il piccolo esercito di San-Roman ha impiegato quasi due ore per scendere dalla montagna ed è venuto a collocarsi a sinistra del vulcano, sul monticello chiamato la Pacheta. Althaus aveva previsto che il nemico avrebbe occupato questa posizione, da cui dominava la fortificazione di Nieto. San-Roman aveva disposto le sue truppe in linee molto spiegate, sperando di creare l’illusione del loro numero, ma si vedeva perfettamente che i ranghi avevano solo due uomini di profondità. Aveva anche fatto disporre i settantotto uomini che costituivano la cavalleria in modo da formare un battaglione quadrato. In breve, aveva agito da abile tattico per dare l’impressione di avere un numero di uomini quattro volte più grande. Le ravanas avevano acceso una moltitudine di fuochi sulla collina e sparpagliato in giro il loro materiale facendo un grande fracasso e gettando grida che si sentivano fino in fondo alla valle.
Quando le due armate si sono trovate di fronte, hanno avuto paura l’una dell’altra. Ognuna era convinta della superiorità di quella nemica. L’impressione di efficienza data da San-Roman faceva temere a Nieto che i suoi eleganti Immortali non avrebbero retto all’urto con i vecchi soldati dell’avversario. San-Roman, dal canto suo, vedendo la superiorità numerica delle truppe di Nieto, pensava di aver commesso un’imprudenza e aveva perso la testa. San-Roman era un buon soldato, ma non era più saggio né meno presuntuoso di Nieto. In base ai resoconti delle sue spie, pensava di andare incontro a una facile vittoria ottenuta persino senza combattere. Molti suoi ufficiali erano convinti di entrare ad Arequipa la sera stessa e, partendo da Cangallo, si erano preoccupati solo del vestito, per essere pronti, all’arrivo, a fare visita alle signore. La stessa sicurezza aveva spinto i soldati a rovesciare le marmitte, gettando via il cibo avanzato, al grido di: “Viva la minestra delle caserme di Arequipa!” Le ravanas, volendo far credere che stavano cucinando, si muovevano molto, ma non avevano neanche una pannocchia da mettere sul fuoco né altro cibo da offrire ai compagni. Per colmo di sventura, l’esercito si trovava accampato in un posto dove non c’era una goccia d’acqua. Quando San-Roman si è reso conto della sua posizione, non è riuscito a far altro che disperarsi e piangere come un bambino. Fortunatamente per lui - abbiamo saputo dopo. Ma egli aveva accanto tre giovani ufficiali di grande coraggio, fermezza e intelligenza, che lo hanno tratto d’impaccio. Torres, Montaya e Quirroga, degni di servire una miglior causa, hanno assunto il comando, risollevato il morale dei soldati e placato i mormorii insolenti delle ravanas. Dando l’esempio della capacità di adattamento che ogni militare deve avere in momenti simili, hanno tagliato con le sciabole le raqueties, che crescono abbondanti sulla montagna e le hanno masticate per primi, per spegnere la sete. Poi ne hanno distribuite ai soldati e alle ravanas, che le hanno prese con un atteggiamento sottomesso e non hanno osato protestare. Ma gli ufficiali si sono resi conto che questo espediente avrebbe calmato l’irritazione dei loro uomini solo per poche ore, perciò hanno deciso di rischiare il combattimento, preferendo morire di spada che di sete. Il tenente Quirroga ha chiesto ai soldati se desiderassero di più ritirarsi senza combattere, fuggendo vergognosamente davanti al nemico ed esponendosi al rischio di perire di fame e di sete nel deserto o se non avrebbero prediletto far sentire la potenza del loro braccio a quella banda di fanfaroni degli avversari, incapaci di resistere malgrado il vantaggio del numero. In qualsiasi altra circostanza i soldati avrebbero preso la fuga alla sola vista del nemico, ma in questa occasione hanno risposto con entusiastiche acclamazioni alla bellicosa arringa e hanno chiesto di combattere.
Erano circa le sette di sera e io ero appena risalita al mio posto di osservazione. Nei due campi sembrava regnare la calma e si pensava che, data l’ora avanzata, la battaglia sarebbe stata rimandata al giorno dopo, alle prime luci dell’alba. All’improvviso, dal battaglione quadrato di San-Roman ho visto staccarsi una specie di portabandiera, seguito dallo squadrone di cavalleria. Subito dopo, dall’esercito di Nieto sono andati loro incontro i dragoni comandati dal colonnello Carillo. I due squadroni si sono lanciati in avanti a passo di carica e, quando sono stati a portata di tiro, è partita una moschetteria, a cui ne è seguita un’altra e un’altra ancora. La battaglia era cominciata. Ho sentito un gran rumore nei due campi, poi il fumo è diventato così spesso da nascondere la scena della carneficina.
Sopraggiunta la notte, era impossibile sapere cosa succedesse. Si propagavano un’infinità di rumori e gli allarmisti sostenevano che avevamo perduto molti uomini e che i nemici stavano per entrare in città. La nostra casa era sempre piena di persone che venivano con la speranza di avere notizie. Uno piangeva per il figlio, l’altra per il marito o il fratello, era una desolazione generale.
Verso le nove, è passato in via Santo-Domingo un uomo che arrivava dal campo di battaglia. Lo abbiamo fermato e ci ha detto che tutto era perduto, che il generale mandava a dire alla moglie di ritirarsi subito nel convento di Santa-Rosa. Ha aggiunto che fra le nostre truppe c’era un terribile disordine e che l’artiglieria del colonnello Morant aveva sparato sui nostri dragoni, scambiandoli per il nemico e uccidendone un gran numero. Quando la notizia si è diffusa in città, il terrore si è impadronito di chi aveva creduto di poter rimanere a casa. Spaventati dal proprio coraggio, si sono affrettati ad andarsene. Li si vedeva correre come pazzi, carichi di piatti, di vasi da notte d’argento, di cassette di gioielli e di braseros, mentre le negre, le samba, trascinavano alla rinfusa i tappeti e i vestiti delle padrone. Le grida dei bambini, il vociare degli schiavi, le imprecazioni dei padroni, davano un aspetto impressionante a tutta quella confusione! I possessori di oro, i proprietari di schiavi, in una parola i membri della razza dominatrice, erano in preda al terrore, mentre gli Indiani e i negri gioivano dell’imminente catastrofe e assaporavano in anticipo i primi frutti delle vendette che sembravano meditare.
Nella bocca degli indigeni c’erano minacce, che intimidivano i bianchi. Gli schiavi non ubbidivano più, la loro risata crudele e lo sguardo cupo e selvaggio turbavano i padroni, che non osavano batterli. Era senza dubbio la prima volta che su quelle facce bianche e nere si potevano leggere tutte le bassezze del loro animo. Calma, in mezzo al caos, io osservavo quel panorama di passioni malvagie e non riuscivo a reprimere il disgusto. L’agonia degli avari, che temevano la perdita delle loro ricchezze più di quella della vita, la vigliaccheria della popolazione bianca, incapace di una reazione energica per difendersi, l’odio degli Indiani fino a quel momento dissimulato sotto ai modi ossequiosi, la sete di vendetta degli schiavi che ancora il giorno prima baciavano la mano che li aveva colpiti, come fa il cane, mi ispiravano il più profondo disprezzo per la specie umana. Con la mia samba io parlavo con lo stesso tono di sempre e la ragazza, che pure era ebbra di gioia, mi ubbidiva perché vedeva che non avevo paura di lei. Al tumulto che ho descritto prima, è seguito un silenzio come quello del deserto.
In meno di un’ora, tutta la popolazione si era ammassata alla rinfusa nei conventi o nelle chiese. Sono sicura che in città non c’erano più di venti case abitate. Tuttavia, nonostante questo, né io né la zia volevamo tornare al monastero.
La nostra casa era diventata un luogo d’incontro degli abitanti, per la sicurezza offerta dalla vicina chiesa di Santo-Domingo e perché si sperava che Althaus avrebbe fatto arrivare notizie. Eravamo riuniti in un’immensa sala con il soffitto a volta che dava sulla strada e che era l’ufficio dello zio. Tenevamo le luci spente, per non attirare l’attenzione dei passanti e si vedeva solo il brillio dei sigari, che i fumatori tenevano sempre accesi. Era una scena degna del pennello di Rembrandt. Attraverso la spessa nube di fumo che riempiva la stanza, si scorgevano le facce larghe e stolide di quattro monaci domenicani, con le lunghe vesti bianche, i rosari dai grani neri e i grossi sandali con le fibbie d’argento. Con una mano facevano cadere la cenere dal sigaro, con l’altra giocherellavano con la disciplina. Sul lato opposto, si vedevano le facce pallide e smagrite dei tre poveri milionari, Juan de Goyeneche, Gamio e Ugarte, insieme a una dozzina di altre persone. La zia era seduta in un angolo del sofà e pregava a mani giunte per i morti dei due schieramenti. Lo zio andava da una parte all’altra della stanza, parlando e gesticolando in modo brusco ed eccitato. Io ero seduta sul davanzale della finestra, avvolta nel mio manto, e godevo del doppio spettacolo offerto dalla strada e dallo studio. Quella notte è stata piena d’insegnamenti. Il gusto di questo popolo per l’esagerazione e il meraviglioso è straordinario. In quella lunga notte ho sentito raccontare, con sangue freddo e aria sussiegosa, molte storie spaventose, mescolate a bugie. L’atteggiamento freddo e indifferente di chi ascoltava dimostrava la scarsa fiducia nei racconti che venivano narrati.
Ogni volta che giungevano notizie vere o false dal campo, la narrazione veniva interrotta e la conversazione cambiava di colpo. Se un soldato ferito, che si stava trascinando all’ospedale, diceva che gli Arequipegni avevano perso la battaglia, nella sala si levava un baccano incredibile; si inveiva a gran voce contro quel furfante vigliacco di Nieto e si esaltava il bravo e vittorioso San-Roman. I buoni Domenicani rivolgevano al cielo le loro preghiere sincere affinché quel cane di Nieto fosse ucciso e si mettevano a fare progetti per l’accoglienza da riservare al glorioso San-Roman. Un quarto d’ora dopo, quando passava un altro soldato che urlava: “Viva il generale Nieto! La vittoria è nostra! San-Roman è stato travolto!”, tutti cominciavano ad applaudire e i buoni padri, battendo le grosse mani, urlavano: “Che coraggio! Che talento, il nostro valoroso generale! Sia dannato quel miserabile Indiano, quel sambo di San-Roman!” Lo zio temeva di essere compromesso da quei chiacchieroni ridicoli e spregevoli e impiegava tutta la sua eloquenza per farli tacere, ma invano. È nella natura di questo popolo distruggere in modo esagerato chi cade e innalzare chi trionfa.
Verso l’una del mattino Althaus ha mandato uno dei suoi aiutanti a dirci che la battaglia era cessata alle otto e che il nemico, intimidito dal numero, non aveva osato avventurarsi, di notte, in un luogo che non conosceva e che, a causa di un terribile errore di Morant, noi avevamo perso trenta o quaranta uomini fra i quali un ufficiale e che fra le truppe regnava un preoccupante disordine. Mi faceva recapitare anche un breve messaggio scritto a matita, nel quale diceva di considerare persa la battaglia.
Mi sentivo molto affaticata e verso le due mi sono ritirata nella mia stanza, ma poiché, in simili circostanze, non volevo perdere nulla, ho pregato mia zia di farmi svegliare appena facesse giorno.
Alle quattro del mattino ero già sul tetto di casa ad ammirare l’incantevole spettacolo offerto dalle cupole delle numerose chiese e dei conventi alle prime luci del sole. In quel momento, uomini, donne e bambini di ogni sfumatura di colore dal nero al bianco, vestiti secondo il loro rango o nei costumi della propria razza, uniti dalla stessa preoccupazione, formavano un tutto armonico. Quelle figure immobili con i corpi piegati in avanti, la bocca socchiusa e gli occhi fissi in direzione dei due campi, ricoprivano completamente le cupole e i campanili e davano loro un aspetto sublime!
Prigioniera delle mie riflessioni, volgevo le spalle al campo, dimentica dei combattenti e della battaglia. Un lungo rumore sordo, uscito dalle cupole come da una tomba, mi ha strappata alla mia fantasticheria. Quella moltitudine umana, animata dallo stesso sentimento, ha avuto una sola voce, da quelle migliaia di petti è uscito un solo grido, vibrante di dolore. Ne sono stata emozionata fino alle lacrime. Senza girare la testa verso il campo di battaglia, capivo che si stavano uccidendo o che stavano per uccidersi!… A quel grido di dolore è seguito un silenzio di tomba e il livello di attenzione delle persone raggruppate sulle cupole e sui campanili era altissimo. All’improvviso, si è udito un secondo grido e il gesto che lo accompagnava mi ha rassicurata sulle sorti dei combattenti. Nei due campi c’era un gran movimento e ho pregato lo zio di lasciarmi osservare con il suo cannocchiale. Ho scorto degli ufficiali che correvano da un campo all’altro e che sparavano in aria dei colpi di pistola; poi ho visto il generale Nieto, seguito dai suoi ufficiali, che andava incontro a un gruppo di ufficiali nemici. Li ha abbracciati e noi eravamo convinti che l’esercito di San-Roman si fosse arreso e che tutto si sarebbe sistemato.
Mentre stavamo facendo delle congetture, è entrato nel cortile Althaus al galoppo, gridando a squarciagola: “Ehi voi lassù! Scendete presto! Vi porto grandi notizie!” Malgrado la scomodità della scala a pioli, abbiamo fatto gara a chi scendeva più in fretta, ignorando il pericolo. Sono arrivata in cortile per prima, sono saltata al collo di Althaus e l’ho abbracciato affettuosamente per la prima volta. Non era ferito, ma in che stato era, mio Dio! Lui, che si distingueva sempre per il suo aspetto ordinato, era coperto di polvere, di fango e di sangue. I lineamenti erano irriconoscibili, gli occhi arrossati gli uscivano dalle orbite, le labbra erano gonfie e la pelle era ferita. Aveva delle contusioni dappertutto, le mani erano nere di polvere e la voce talmente arrochita che si riusciva a malapena a capire quello che diceva.
“Cugino – gli ho detto con il cuore rattristato - non avevo bisogno di vedervi in questo stato per aborrire la guerra. Dopo quello che ho visto in questi due giorni, non penso che possano esistere delle punizioni troppo crudeli per chi la provoca.”
“Florita, oggi la spuntate facilmente su di me, perché non posso parlare, ma, per favore, non chiamate guerra una ridicola mischia nella quale nessuno di quei pivelli sapeva puntare un pezzo d’artiglieria. Sono ridotto ad avere l’aspetto di un ladro! E per aumentare il mio buonumore, la mia gentile sposa mi ha nascosto anche l’ultima camicia!”
Althaus si è rassettato alla meglio, ha bevuto quattro o cinque tazze di tè, ha mangiato una dozzina di tartine, poi si è messo a fumare e mentre faceva queste cose, lanciava rimproveri all’indirizzo della moglie, rideva e scherzava come al solito e ci raccontava gli ultimi avvenimenti.
“Ieri – ha detto – lo scontro è stato solo un pigia pigia, ma che confusione indescrivibile ne è seguita! Per fortuna i Gamarristi hanno avuto paura e si sono ritirati. Io ho passato la notte a rimettere ordine fra le nostre truppe. Questa mattina, eravamo schierati sul campo di battaglia e ci aspettavamo di vedere il nemico lanciarsi su di noi, dato il vantaggio della sua posizione. Invece abbiamo visto arrivare un parlamentare che, a nome di San-Roman, ha chiesto di parlare al generale. Nieto, dimenticando la sua importanza, voleva accettare l’invito, ma il monaco e gli altri si sono opposti. Per farla breve, ho detto: ‘Come capo di stato maggiore, tocca a me andare.’ E senza attendere risposta ho spronato il cavallo in direzione del parlamentare, ma lui mi ha detto che San-Roman voleva parlare con il generale in persona. Non potendo ottenere altro da questo inviato, sono tornato dal generale e gli ho detto: ‘Se date retta a me, rispondiamo con le pallottole. È un tipo di discorso comprensibile a tutti!’
Quell’imbecille di Nieto, non ha tenuto conto del mio consiglio, ha voluto fare il buono con il suo vecchio compagno d’armi e con i fratelli di Cuzco. Il monaco digrignava i denti e schiumava di rabbia, ma è stato obbligato a cedere all’uomo che aveva pensato di usare come uno strumento quando lo aveva fatto nominare. Nieto gli ha imposto il silenzio dicendo: ‘Senor Baldivia, qui il solo capo sono io.’ Il padre, adirato, gli ha lanciato uno sguardo che diceva: ‘Appena potrò strangolarti, non mi lascerò sfuggire l’occasione!’ Tuttavia, non volendo perdere la partita, si è rassegnato a seguire Nieto. In questo momento, assistiti dai giornalisti Quiros e Ros, Nieto e Baldivia sono in conferenza con il nemico. Quanto a me, adesso che mi sono ristorato e ripulito, torno al campo e mi metto a dormire fino a quando non verranno a dirmi se dobbiamo farci la guerra o abbracciarci.”
La notizia portata da Althaus si è diffusa rapidamente in città ed è penetrata anche nei conventi. Si pensava che l’incontro dei due capi avrebbe portato alla pace e questa speranza era un motivo di sollievo per tutti. Gli Arequipegni sono essenzialmente pigri e l’agitazione a cui erano stati sottoposti per un giorno e una notte aveva esaurito le loro forze. Così hanno afferrato al volo l’opportunità di rifarsi e, in un momento di tregua, dimenticando l’avvenire e la propria causa, hanno pensato solo a godere delle piccole cose di cui erano stati privati nelle ultime ventiquattr’ore. Chi pensava a bere una cioccolata, chi a rinnovare la provvista di sigari, tutti erano alla ricerca di un posto nei conventi o nelle chiese dove potersi rannicchiare e riposarsi. Anch’io mi sentivo spossata, le forti emozioni che mi avevano agitata rendevano necessario un po’ di riposo e non avevo intenzione di rinunciarvi.
Sono andata a letto dopo aver dato ordine alla mia samba di svegliarmi solo quando il nemico fosse arrivato nel cortile. Era giovedì 3 aprile.
Alle sei di sera ero ancora profondamente addormentata quando Emmanuel e mio zio sono entrati nella stanza.
“Ebbene – ha chiesto mio zio a Emmanuel – che novità ci porti?”
“Niente di positivo. Il generale è rimasto a parlare con San-Roman dalle cinque del mattino alle tre del pomeriggio. Quando è tornato, ha detto solo che pensava che tutto si sarebbe sistemato. Abbiamo saputo da un aiutante di campo che il loro incontro è stato molto commovente, che hanno pianto sulle sciagure del paese e sulla perdita dell’ufficiale Montenegro, di cui hanno circondato il corpo giurando unione e fratellanza sui suoi antenati. La giornata è passata a pronunciare delle belle frasi, da una parte e dall’altra. I Gamarristi fanno i finti tonti e sono miti come agnelli, mentre Nieto, più sensibile che mai, ha permesso a San-Roman di mandare i suoi uomini e i cavalli ad abbeverarsi alla fontana dell’Agua Salada. Ha persino fatto portare loro dei viveri e tratta San-Roman e il suo esercito come dei fratelli.”
Emmanuel mi ha invitata a visitare il campo, mio zio ha voluto accompagnarmi e siamo partiti tutti insieme. Abbiamo trovato le chicherias e la casa di Menao quasi completamente distrutte e il campo in grande disordine. I luoghi sembravano occupati dal nemico, i campi di mais erano devastati, i poveri contadini erano stati costretti a fuggire e le loro capanne erano state occupate dalle ravanas. Nella sede dello stato maggiore ho visto gli ufficiali, che di solito erano molto eleganti, sporchi, con gli occhi arrossati e la voce roca. La maggior parte di essi dormiva per terra, come i soldati. Il quartiere delle ravanas era distrutto perché, nella confusione, l’artiglieria di Morant lo aveva raggiunto e colpito. Tre donne erano state uccise, sette o otto erano gravemente ferite. Non ho incontrato né il generale né Baldivia. Erano andati a dormire.
L’indomani, Nieto è di nuovo andato da San-Roman e gli ha mandato del vino, del prosciutto e del pane per la truppa. A mezzogiorno, tutti si aspettavano di veder pubblicare un bando con la notizia del risultato delle conferenze con il nemico. Alle due non si era visto alcun proclama e si cominciava ad alzare la voce contro quell’uomo nominato dal popolo comandante generale del dipartimento, che per tre mesi aveva disposto a piacimento della fortuna, della libertà, della vita dei cittadini e che aveva ripagato la loro fiducia dandosi arie di presidente o, meglio, di dittatore.
La condotta di Nieto ha portato al culmine l’esasperazione popolare. Gli abitanti, costretti ad abbandonare le proprie occupazioni e le proprie abitudini, per nascondersi nei monasteri e nelle chiese, era impaziente di sapere come stavano le cose, non potendo sopportare oltre la situazione in cui erano stati messi. I pochi che, come noi, erano rimasti a casa, vivevano senza comodità. La biancheria, le posate, le sedie, persino i letti erano nascosti nei conventi. Noi tribolavamo per queste privazioni, ma le migliaia di sfortunati stipati alla rinfusa nei monasteri, soffrivano molto di più. Mancavano di vestiti e delle cose indispensabili alla preparazione del cibo e gli uomini, le donne, i bambini, gli schiavi, costretti a stare insieme in un piccolo spazio, vivevano in una condizione orribile.
Alle sofferenze materiali della popolazione, si aggiungeva l’ansia di non sapere per quale dei due rivali pronunciarsi, di ignorare il nome del candidato da adulare o dello sfortunato da coprire di insulti e di maledizioni. Non potendo prevedere quale dei due capi avrebbe prevalso, bisognava attendere. Ma attendere senza poter parlare per questo popolo hablador era un supplizio crudele.
Verso le tre si era diffusa la voce che tutto era sistemato. San-Roman aveva riconosciuto Orbegoso come legittimo presidente e aveva fraternizzato con i fratelli di Arequipa. La domenica successiva ci sarebbe stato il suo ingresso in città per assistere alla messa solenne e per rendere grazie a Dio. La popolazione era entusiasta della notizia, ma il suo entusiasmo è stato di breve durata. Alle cinque, un aiutante di campo mandato da Althaus è venuto a dirci che i negoziati fra i due capi si erano interrotti e che la sera sarebbe venuto a raccontarci tutto. Informata di questo risultato, la popolazione ha represso la propria indignazione per paura ed è caduta in una sorta di stupore insensibile.
Eravamo riuniti nello studio dello zio, ignari della direzione che avrebbe preso la faccenda, con tutte le notizie contraddittorie che arrivavano. Mentre attendevamo Althaus con grande ansia, lo sfortunato generale è passato davanti a casa nostra, seguito dal monaco e da alcuni altri. Mi sono affacciata alla finestra e gli ho detto: “Generale, avreste la bontà di dirci se la battaglia avrà luogo?” “Sì, signorina, domani all’alba.” Sono stata colpita dal suono della sua voce e ho avuto pietà di lui. Mentre parlava con mio zio, l’ho osservato con attenzione. Tutto il suo essere rivelava una grande sofferenza morale. Lo sguardo stravolto, le vene della fronte tese come corde, i muscoli contratti, i tratti alterati mostravano che quell’incapace era stato raggirato in modo indegno. Si reggeva a malapena in sella, sulle sue tempie scorrevano grosse gocce di sudore, la voce aveva un timbro straziante e faceva male ad ascoltarla, le sue mani stritolavano le redini del cavallo… Ho creduto che fosse impazzito. Il monaco era cupo e impassibile e non riuscivo a sostenere il suo sguardo raggelante… Si sono fermati solo pochi minuti e, mentre si allontanavano, mio zio mi ha detto: “Florita, questo povero generale è malato, domani non potrà reggere il comando.”
“Zio, la battaglia è persa in partenza, quest’uomo ha smarrito la ragione e le sue membra rifiutano di ubbidirgli. Bisogna assolutamente sostituirlo, altrimenti domani ci sarà il coronamento di tutte le sue sciocchezze.”
Lasciandomi andare a un impulso dell’animo ho supplicato mio zio di andare a trovare il prefetto, il sindaco, i capi dell’esercito per spiegare la posizione critica in cui Nieto li aveva messi e invitarli a riunirsi per togliergli il comando e darlo a qualcun altro.
Lo zio mi ha guardata spaventato e mi ha chiesto se ero impazzita anch’io per indurlo a compromettersi con un atto simile. E pensare che uomini simili vogliono vivere in una repubblica!… Mentre parlavamo di questo argomento, è arrivato Althaus, che ha detto: “Don Pio, Florita ha ragione. È vostro dovere radunare subito le autorità della città per togliere, stasera stessa, il comando a Nieto. Nominate chi volete, Morant, Carillo, il monaco, voi stesso, ma, per Waterloo, fate in modo che questo animale non si immischi più di nulla, altrimenti la battaglia è perduta. Nieto non è cattivo, ma la sua debolezza, la sua sensibilità manierata fanno più danni della cattiveria. La sua debole intelligenza è talmente spaventata dagli errori commessi da farlo impazzire e tutte le sue azioni provano che è impazzito.”
Lo zio non ha più osato dire una parola, aveva paura della franchezza di Althaus e della mia. Noi parlavamo a voce alta davanti a venti persone e lui temeva di essere compromesso da quello che dicevamo. Perciò, ha preso la decisione di fingersi ammalato ed è andato a letto e la zia ha fatto lo stesso, lasciandomi sola.
Althaus mi ha detto che tutto l’esercito era indignato con il generale e che al campo si parlava di strappargli le stellette.
“Cugino, raccontatemi quello che è successo.”
“Ecco in breve i fatti. San-Roman non aveva viveri, per ottenerli ha adulato Nieto, promettendogli di riconoscere Orbegoso. Il nostro generale credulone ha prestato fede alle sue promesse dettate dal bisogno. Quando Nieto è tornato, eravamo tutti nervosi per l’attesa. Morant gli ha domandato: ‘Allora, generale, ci batteremo? Dobbiamo tenerci pronti per questa sera?’ ‘Per domani, signore, al sorgere del sole.’ Aveva con sé tre ufficiali di San-Roman, che aveva fatto arrestare e che stasera farà fucilare. Lo ripeto, quest’uomo è pazzo…sarebbe urgente togliergli il comando, ma la scelta di un altro comandante è difficile. Chi nominare? I cittadini che dovrebbero difendere la patria sono nascosti in convento, vostro zio è andato a dormire, i Goyeneche e i Gamio riescono solo a piangere. Che cosa si può fare con questo mucchio di pulcini bagnati? Sono sicuro che perderemo e ne sono contrariato, perché detesto Gamarra.”
Althaus mi ha stretto la mano e mi ha rassicurata sulla sua sorte dicendomi: “Non abbiate timore per me, i Peruviani sono bravi a correre, ma non a uccidere.” Ed è tornato al campo.
Sono stata svegliata prima dell’alba da un vecchio chacarero. Veniva a dirci, da parte di Althaus, che San-Roman aveva abbandonato la sua posizione approfittando dell’oscurità per ritirarsi verso Cangallo e che Nieto si era messo al suo inseguimento con tutto l’esercito, seguito dalle ravanas.
Quando si è fatto giorno, sono salita sul tetto e non ho più visto traccia degli accampamenti nella pianura. I soldati erano partiti per andare a combattere.
Alle nove si è udito il cannone, i suoi colpi si ripetevano con terribile rapidità. Tra la folla regnava il più profondo silenzio, il silenzio del condannato davanti alla ghigliottina. Mezz’ora dopo, abbiamo scorto una nube di fumo che si levava dietro alla Pacheta, dove sorgeva il villaggio di Cangallo. Abbiamo pensato che il combattimento si svolgesse lì. Verso le undici sono comparsi molti soldati su di uno spiazzo della Pacheta. Mezz’ora dopo sono spariti dietro alla montagna. Si discernevano solo pochi uomini sparsi, a piedi e a cavallo. Con il cannocchiale del vecchio Hurtado, distinguevo perfettamente i feriti: uno, seduto in terra, si legava il braccio con un fazzoletto, un altro si fasciava la testa, un terzo era coricato di traverso al cavallo, molti scendevano per lo stretto e difficile sentiero della montagna.
A mezzogiorno e mezzo gli Arequipegni si sono convinti del disastro. Ai nostri sguardi si offriva lo spettacolo della disfatta, grandiosa e terribile come una tempesta. Nelle giornate di luglio del 1830 mi ero esaltata per l’eroismo del popolo e non pensavo al pericolo. Ad Arequipa, invece, ho visto solo le sventure che minacciavano la città.
All’improvviso, sono comparsi sulla Pacheta i dragoni di Carillo, con buone montature e con la bandiera del Perù in cima alle lance. Si sono lanciati al galoppo dall’alto della montagna, nel disordine dettato dalla paura. Dietro di loro venivano i chacareros, con i muli e gli asini, in mezzo ai quali correvano gli uomini della fanteria, che gettavano via i fucili e il bagaglio per andare più veloci. Infine veniva l’artiglieria, che doveva proteggere la ritirata, seguita dalle sventurate ravanas con un bambino o due sul dorso e con i muli, i buoi e i montoni, che don Nieto aveva voluto al seguito dell’esercito, da spingere avanti.
A questo spettacolo, gli abitanti hanno gettato un grido di terrore, che risuona ancora nel mio animo e nello stesso istante la folla è scomparsa. Le cupole sono tornate deserte, il silenzio regnava ovunque e si sentivano solo i lugubri rintocchi delle campane della cattedrale. Tutto quello che l’afflizione delle madri, delle amanti, delle figlie e delle sorelle ha di più straziante, le donne di Arequipa lo hanno provato. Nel primo momento esse sono state quasi fulminate da questa calamità e prostrate dal dolore. Sono cadute in ginocchio a pregare, levando al cielo le mani tremanti e gli occhi bagnati di lacrime. Anch’io mi sono messa a pregare, non per chi era stato liberato dai dolori di questa vita dalla battaglia, ma per questo sventurato paese, i cui politici rapaci e perversi provocano una guerra civile permanente per poter saccheggiare i propri concittadini.
Verso l’una e mezzo sono cominciati ad arrivare i feriti. Che scene strazianti! All’angolo di casa nostra si erano radunate più di cento donne, tormentate dalla paura di riconoscere il proprio figlio, marito o fratello tra i contusi. La loro vista provocava nelle donne un eccesso di disperazione e in quel giorno spaventoso ho sofferto molto per i gemiti e il dolore profondo che avevo davanti agli occhi.
Eravamo tutti preoccupati per Althaus, Emmanuel, Crevoisier, Cuello e gli altri. Non capivamo perché il generale non venisse a difendere la città, come prevedeva il piano in caso di rovescio militare. La disfatta aveva avuto luogo più di un’ora prima e ci si aspettava di veder entrare il nemico a ogni momento. È arrivato Cuello morente. Aveva ricevuto una pallottola in un fianco e perdeva sangue da tre ore. È stato portato all’ospedale e io sono andata ad aiutare la sorella a sistemarlo il meglio possibile.
Mentre rientravo a casa, ho scorto Emmanuel arrivare a briglia sciolta. Gli siamo corsi tutti incontro e lo abbiamo circondato, impazienti di avere notizie. Althaus e gli altri ufficiali non erano feriti, ma i due eserciti avevano avuto molte perdite. Emmanuel ha detto anche che il generale aveva intenzione di abbandonare la città, per l’impossibilità di difenderla contro il nemico. Nieto aveva mandato lui per inchiodare i cannoni del ponte e gettare il resto delle munizioni nel fiume.
Ha raccontato tutto questo in cinque minuti, poi mi ha detto di preparare in fretta gli effetti personali di Althaus, in modo che trovasse tutto pronto per la fuga. Sono corsa subito a casa di Althaus e, con l’aiuto del suo negro, che ho dovuto quasi battere per costringerlo a ubbidire, ho fatto caricare su una mula un letto e un baule pieno di vestiti. La mia samba e un altro negro dello zio Pio, accompagnati dallo schiavo restio, hanno condotto l’animale fuori città, per risparmiare ad Althaus l’imbarazzo di una partenza dalla città. Dopo aver compiuto questi doveri, ho fatto preparare del tè e del cibo, perché pensavo che il mio povero cugino avrebbe avuto urgente bisogno di mangiare e bere qualcosa. All’improvviso, ho udito un gran rumore di zoccoli e sono corsa alla porta. Era il generale, seguito dagli ufficiali e dall’esercito, che attraversava la città al galoppo. Mio cugino è entrato in casa e, vedendo il cavallo di ricambio che gli avevo fatto preparare, è saltato giù dal suo, è venuto da me, mi ha preso la mano e ha detto: “Grazie, Flora, grazie. Hanno preparato tutte le mie cose?”
“La mula è già partita, ma sarebbe bene che i vostri due aiutanti di campo andassero a raggiungerla, perché quel negro maledetto si rifiuta di venire con voi.”
“Avete qualcosa da bere da offrire a questi signori che sono morti di fatica?” Ho dato loro del buon vino di Bordeaux e ognuno ne ha prese due bottiglie. Ho riempito le loro tasche di zucchero, di cioccolato, di pane e di tutto quello che ho trovato in casa. Hanno dato del vino anche ai cavalli poi, dopo essersi un po’ rinfrescati, sono partiti.
Althaus, che aveva sforzato la voce nel dare ordini, non riusciva più a parlare. Bevendo in fretta il suo tè mi ha raccontato in due parole che questa volta erano stati i dragoni di Carillo a far perdere la battaglia. Con un errore di manovra, avevano sparato sull’artiglieria di Morant, credendo di colpire il nemico. “Ve lo ripeto, Florita, fino a quando questi civili rifiuteranno di imparare la tattica militare, combineranno solo pasticci. Adesso il generale non vuole difendere la città. Il timor panico si è impadronito di lui e non pensa che a fuggire senza alcun piano prestabilito. Alla casa di Menao, abbiamo fatto fatica a persuaderlo che occorreva almeno dare il tempo alla truppa di rientrare nei ranghi. Molti sono scappati e, quando siamo tornati alle chicherias, abbiamo fatto sforzi inauditi per raggiungere i fuggitivi, purtroppo senza successo. Quei furfanti vigliacchi, aiutati dalle ravanas, si nascondono forse sottoterra come le talpe. Quello che mi stupisce, cugina, è la lentezza impiegata dal nemico ad arrivare qui. Non ci capisco niente…”. In quel momento è entrato in cortile Emmanuel, che ha detto ad Althaus: “Sono venuto a cercarvi. Partono tutti. Il monaco ha caricato sul cavallo il resto della cassa, il generale è andato ad abbracciare la moglie, che ha partorito stanotte, io ho appena salutato mia madre. Andiamo, cugino, aspettiamo solo voi per partire.” Althaus mi ha stretta forte contro il suo petto e, baciandomi, mi ha raccomandato la moglie e i figli. Ho baciato il caro Emmanuel, poi entrambi si sono allontanati in fretta.
Quando sono tornata in via Santo-Domingo, l’ho trovata completamente deserta, con le porte delle case sbarrate. In città sembrava regnare una calma perfetta, ma il sangue arrossava ancora il selciato. La solitudine e quella traccia di morte rivelavano, in modo molto espressivo, la calamità che l’aveva colpita e da cui temeva di essere colpita di nuovo.
Tornata a casa, ho raccontato allo zio quello che mi avevano detto Althaus ed Emmanuel. Le persone che erano in casa hanno condannato indignate la decisione del generale, ma nessuno ha preso l’iniziativa di un’azione qualunque.
Alle cinque sono di nuovo salita sul tetto di casa. Ho visto la grande nube di polvere lasciata dai dragoni di Carillo in fuga attraverso il deserto, che si dirigevano verso Islay, dove sapevano di trovare due navi per mettersi in salvo dall’inseguimento di San-Roman. Sono rimasta a lungo seduta nel posto dov’ero stata la mattina. Come era cambiata la città, avvolta da un silenzio di morte! Tutti gli abitanti erano in preghiera, rassegnati a lasciarsi massacrare senza opporre resistenza.
Lo zio mi ha pregata di scendere, per andare con lui alla chiesa di Santo-Domingo a trovare la famiglia. Mi sono resa conto che non avevo mangiato nulla in tutto il giorno e ho bevuto una tazza di cioccolata, poi ho preso il manto e sono andata anch’io in chiesa.
Tutti chiedevano alle persone di vedetta sulle torri se dalla parte della Pacheta si scorgesse qualcosa, ma esse rispondevano di no. Alle sette, sono arrivati tre Indiani alla porta del convento ad annunciare che il nemico aveva raggiunto le chicherias. San-Roman non sarebbe entrato in città, a meno che le autorità non glielo avessero chiesto. A questa notizia, nel convento si è levato un grande clamore. Il prefetto e le autorità rifugiate nel monastero volevano che fossero i reverendi padri a compiere quell’atto di pace, ma i monaci, che non brillavano per il loro coraggio, hanno protestato vigorosamente. C’è stata una grande discussione e alla fine, anche grazie ai miei sforzi, i monaci si sono persuasi ad accettare la missione. Erano accompagnati da quattro o cinque impiegati del comune. Un’ora dopo li abbiamo visti tornare alla testa di due reggimento di cavalleria e di fanteria.
Alle otto di sera di sabato 5 aprile i Gamarristi hanno preso possesso della città di Arequipa.
Quando mi sono svegliata, le persone intorno a me erano in uno stato di agitazione. Dicevano che i soldati avevano attraversato la città, derubando i passati e uccidendo due persone. Era domenica. Le signore Cabero non volevano mancare alla messa e due monaci ci hanno accompagnate. Che spettacolo disgustoso offriva la chiesa! C’era una confusione di uomini, donne, bambini, cani, e una profusione di letti, cucine, vasi da notte, il tutto avvolto da una nuvola di fumo.
In un angolo si cantava la messa, in un altro si mangiava o si fumava. Una cosa ripugnante. Sono andata a far visita agli zii, alloggiati nella cella del priore con altre sette o otto persone. Non sono riuscita a convincere lo zio a tornare a casa, aveva troppa paura dei saccheggi. Io, che non ero affatto spaventata, sono tornata a casa da sola e mi sono messa a scrivere il diario degli ultimi tre giorni. Lo zio ha voluto restare al convento anche la notte e io sono rimasta a casa da sola con la mia samba. La ragazza, che aveva quindici anni, mi diceva: “Signorina, non temete, se verranno i soldati o le ravanas a saccheggiare la casa, io, che sono Indiana e parlo la loro lingua, dirò: ‘La mia padrona è francese, non fatele del male. Sono sicura che non vi faranno nulla, perché essi colpiscono solo i propri nemici.”
La mattina dopo sono venuti due ufficiali a chiedere di parlare con il senor don Pio. Io non volevo rivelare che lo zio stava nascosto, allora li ho fatti entrare in casa e ho detto solo che don Pio era assente. Poi ho chiesto che cosa volessero da lui.
“Signorina, desideriamo che vostro zio, come persona importante del paese, venga a parlare al colonnello Escudero, che sostituisce San-Roman, ucciso in battaglia. Noi siamo i vincitori e gli Arequipegni abusano della nostra moderazione, continuando a trattarci da nemici. Dal momento del nostro ingresso in città le porte delle case sono sbarrate. Le truppe sono senza pane, i feriti stanno morendo sul campo di battaglia e gli abitanti si ostinano a restare nei conventi, come se noi volessimo massacrarli. Voi siete la prima persona alla quale esponiamo le nostre esigenze, ma vi renderete conto, signorina, che questo stato di cose non può continuare.”
Ho parlato a lungo con questi signori e li ho trovati ragionevoli. Appena sono usciti, sono corsa al monastero ad avvertire lo zio e gli altri rifugiati. Quando si è saputo che San-Roman era morto e che al suo posto comandava il colonnello Escudero, gli animi si sono tranquillizzati. Ad Arequipa il colonnello era molto conosciuto e amato. Quasi tutti sono tornati a casa e mio zio è andato subito da Escudero.
Giunto a casa, mi ha detto: “Siamo salvi. Personalmente, non ho più nulla da temere. Escudero mi deve molto e mi è devoto. Ci credereste che mi ha chiesto di farmi eleggere capo dell’esercito al posto di San-Roman?”
“E voi accetterete?”
“Me ne guarderò bene! Nei periodi di crisi, bisogna tenersi in disparte fino a quando torna la calma. Solo allora accetterò un posto di mio gradimento, ma non nell’esercito, perché sono troppo vecchio.”
“Ma è proprio nei momenti difficili che gli uomini come voi dovrebbero mettere il proprio talento e la propria esperienza a disposizione del paese!”
“Florita, per fortuna non siete un personaggio politico perché il vostro spirito di sacrificio vi distruggerebbe. Lascerò affogare questi ignoranti nelle difficoltà e nelle complicazioni, perché più ne avranno, più sentiranno il bisogno di rivolgersi a me. Verranno a pregarmi, a supplicarmi e io potrò dettare le mie condizioni.”
Ho guardato lo zio e ho pensato: “Poveri Peruviani!”
Don Pio è andato da Escudero a offrirgli un prestito di duemila piastre e ha invitato Ugarte, i Goyeneche e gli altri a fare altrettanto. Il vescovo ha offerto quattromila piastre, suo fratello e sua sorella ne hanno versate duemila, gli altri hanno dato in proporzione.
Durante le agitazioni, gli stranieri e le loro proprietà sono stati rispettati. All’arrivo di Escudero, il signor le Bris e i dirigenti di due compagnie inglesi, gli hanno fatto un piccolo prestito perché provvedesse ai bisogni della truppa, che era rimasta per tre giorni senza ricevere la razione di pane. Il prestito, però, è stato volontario.
Il terzo giorno, Escudero ha fatto pubblicare un bando che ordinava di aprire gli usci delle case e di lasciarli aperti, come di consueto. I portoni trovati chiusi sarebbero stati abbattuti dai soldati. Questa ordinanza ha obbligato le persone rimaste in convento a tornare a casa. Per cercare di tranquillizzare i poveri borghesi, Escudero ha anche dato ordine ai soldati di passeggiare in città senza infastidire gli abitanti.
Avevamo saputo da Althaus che domenica 6 aprile Nieto e tutto il suo esercito erano arrivati a Islay, avevano inchiodato i cannoni, bruciato i registri della dogana e obbligato l’amministratore, don Basilio de la Fuente, a partire per Lima. Poi, dopo aver saccheggiato il paese, si erano imbarcati su tre navi peruviane, in direzione di Tacna.
Escudero era entrato ad Arequipa di notte, perciò nessuno sapeva di preciso il numero di soldati che aveva con sé. Quattro giorni dopo la divulgazione della notizia della morte di San-Roman, si era diffusa la voce che era solo ferito. Sette giorni dopo è entrato in città, anche lui di notte.
Questi sono i fatti, secondo il racconto di Escudero.
Dopo aver tenuto in scacco Nieto per tre giorni, al solo scopo di ottenere viveri per la sua truppa, San-Roman ha ripiegato su Cangallo, senza immaginare che il generale lo avrebbe inseguito. Prima di affrontare la battaglia, egli ha chiesto rinforzi a Gamarra, che gli ha inviato quattrocento uomini al comando di Escudero. Mentre i soldati di San-Roman festeggiavano i nuovi arrivati, in cima alla Pacheta è comparso l’esercito di Nieto. La confusione è stata totale. San-Roman aveva dato il permesso ai suoi di bagnarsi e una parte di essi erano completamente nudi. Quando hanno visto gli Arequipegni, si sono creduti persi e si sarebbero dati tutti alla fuga se non ci fosse stato Escudero a ristabilire l’ordine. Hanno affrontato con coraggio il combattimento, ma presto sono venute a mancare le munizioni si è diffuso il panico. Allorché San-Roman ha visto i propri soldati allo sbando, ha creduto di essere stato vinto e ha deciso di fuggire. Si è allontanato in tutta fretta a cavallo, in compagnia di alcuni dei suoi. Così, i due valorosi campioni, spaventati l’uno dall’altro, sono fuggiti in direzioni opposte, hanno galoppato per un giorno e una notte e hanno messo fra di loro uno spazio di ben 80 leghe. Il terrore ha fatto arrivare Nieto fino a Islay, a 40 leghe a sud, e San-Roman fino a Vilque, a 42 leghe a nord. Mentre una parte dell’esercito di San-Roman stava tornando verso Arequipa, uno degli ufficiali, imprigionato da Nieto in municipio, ha visto dal tetto la disfatta degli Arequipegni. Approfittando della confusione, è saltato sul primo cavallo trovato in cortile, ha preso una scorciatoia attraverso i campi e ha raggiunto Cangallo in un’ora. Ha gridato ai fuggitivi di fermarsi, perché Nieto, ritenendosi sconfitto, aveva abbandonato la città e stava fuggendo verso il porto. Escudero e alcuni altri hanno passato la notte e una parte dell’indomani a riunire i soldati – sono riusciti a radunarne un terzo – e hanno fatto marcia su Arequipa, sicuri di non incontrare resistenza. Senza questo ufficiale, i due eserciti, che si credevano battuti, avrebbero continuato la loro fuga in direzioni opposte e la città non avrebbe visto comparire né difensori né nemici.
Mentre Escudero mi raccontava questi avvenimenti, pensavo ad Althaus, per il quale la scienza militare è l’arbitro supremo dei successi e delle sconfitte. Rimpiangevo di non potergli far comprendere, con questo esempio, quanto siano vani l’uomo e la sua scienza.
Si è dovuti andare a Vilque ad avvertire San-Roman che aveva vinto la battaglia. Egli è entrato ad Arequipa solo sette giorni dopo, con la scusa, non vera, di avere una ferita alla coscia.