Lima è una città dedita ai piaceri, un luogo dove ingegno e bellezza si contendono la supremazia, come accadeva a Parigi ai tempi del re Luigi XV.
Mia zia, come tutte le donne di Lima, si occupava molto di politica e nella sua casa si riunivano gli uomini più importanti del paese, fra i quali il presidente Orbegoso, il generale inglese Miller e il colonnello francese Soigne, entrambi al servizio della repubblica. Frequentando le sue conoscenze, sono stata in grado di farmi un’opinione dell’intelligenza e dei meriti degli uomini che governavano il paese. Orbegoso e gli ufficiali della sua cerchia mi sono sembrati delle nullità complete. Ho anche ritrovato il famoso prete Luna Pizarro che avevo conosciuto a Islay e che, secondo me, era sopravvalutato e non aveva le capacità, ad esempio, di Baldivia. La virulenza verbale faceva di questo vegliardo un Murat peruviano, ma non ho riscontrato in lui una visione positiva del futuro. Aveva la passione del demolitore, ma non la capacità di far progetti dell’architetto. Tutti questi personaggi sono spinti unicamente dall’ambizione personale. Il vecchio prete voleva prendere il posto del vescovo di Arequipa e, per ottenerlo, era diventato fazioso e si sarebbe anche trasformato in un cortigiano se questo lo avesse aiutato a realizzare i suoi piani. Purtroppo, il popolo è troppo arretrato perché dal suo seno escano dei veri tribuni e non è in grado di giudicare gli uomini che lo governano.
Lima, fondata da Pizarro nel 1535, conta ottantamila abitanti circa. Non sono a conoscenza dell’origine del suo nome. La città contiene dei monumenti molto belli, fra i quali un gran numero di chiese e di conventi maschili e femminili. La maggior parte delle strade, larghe, lunghe e dritte, hanno due rigagnoli d’acqua ai lati, solo alcune hanno un ruscello nel mezzo. Le case, di forma regolare e con un solo piano, sono fatte di mattoni, di terra e di legno e sono dipinte di colori chiari: azzurro, grigio, rosa o giallo. Il tetto è piatto e, in alcuni casi, serve da terrazza guarnita da vasi di fiori, anche se molte coperture non hanno la solidità necessaria per questo uso. Spesso i muri oltrepassano il tetto e danno alle case un aspetto non finito. Non piove mai, ma, se dovesse accadere, dopo quattro ore di pioggia le case sarebbero solo dei mucchi di fango. L’interno è abbastanza ben progettato: sul primo cortile si affacciano il salotto e la sala da pranzo, sul secondo ci sono la cucina e le stanze degli schiavi. Le stanze da letto, ammobiliate con grande sfarzo, secondo il rango e la ricchezza di chi le abita, sono al primo piano.
La cattedrale è di pietra ed è così solida da aver resistito ai più forti terremoti senza subire il minimo danno. Le due torri, la facciata e la scalinata hanno una grandiosità rara anche in Europa, ma che non ci si aspetterebbe mai di trovare in una città del nuovo mondo. All’interno, il rivestimento di legno del coro e le balaustre d’argento dell’altare maggiore sono di squisita fattura e anche le piccole cappelle laterali - ogni canonico ha la sua – sono splendide. La chiesa occupa tutto il lato est della grande piazza e sorge di fronte al municipio.
La piazza rappresenta il Palais Royal di Lima. Su due lati vi è un porticato che ospita negozi eleganti di ogni genere e una bella fontana al centro. C’è movimento a ogni ora del giorno: la mattina ci sono i portatori d’acqua, i militari e le processioni, la sera ci sono molte persone che passeggiano. Vi si incontrano gelatai, venditori di frutta e di dolci, artisti di strada che divertono il pubblico con giochi e danze.
San Francesco è un convento maschile straordinario e la sua chiesa è la più ricca e bizzarra fra quelle che ho visto. Quando le donne desiderano entrare in un monastero ricorrono a un curioso stratagemma: dicono di essere incinte. I buoni frati nutrono un sacro rispetto per le voglie delle donne gravide e aprono loro tutte le porte. Quando abbiamo visitato il convento di San Francesco, i monaci ci hanno prese in giro in modo indecente. Mentre salivamo sulle torri, il priore, vedendo che ero agile e sottile e che mi arrampicavo con energia, mi ha chiesto se non ero incinta. Sono rimasta stupita e confusa da quella domanda inattesa e il mio imbarazzo ha provocato le risate dei monaci e le loro proposte sconvenienti. Anche Manuela, che è tutt’altro che timida, non sapeva che contegno tenere. Sono uscita dal convento scandalizzata, ma le persone con cui mi sono lamentata mi hanno detto che i monaci dicevano così perché erano allegri e amabili. E pensare che il popolo accorda fiducia a simili individui! Ma a Lima non c’è alcun costume che non sia corrotto.
Sono andata anche a visitare il convento femminile dell’Incarnazione. All’interno di questo monastero non c’è atmosfera religiosa e la regola monastica è assente. Tutto si svolge come in una casa qualunque. Tutte le ventinove suore hanno il proprio alloggio dove cucinano, lavorano, allevano i figli, parlano, cantano e fanno quello che vogliono. Ne ho anche viste alcune senza l’abito dell’ordine.
Hanno con sé delle pensionanti che vanno e vengono in continuazione, per cui la porta è sempre aperta. È un tipo di vita di cui non si comprende lo scopo e si sarebbe tentati di credere che queste donne si siano rifugiate qui per essere più indipendenti. Ho conosciuto una graziosa Francese di ventisei anni con una figlia di cinque, che aveva scelto di abitare qui, mentre il marito era in viaggio per affari in America centrale, per motivi economici. Non ho visto la superiora, mi hanno detto che era ammalata. Le religiose mi sono sembrate pettegole, il convento era sporco e tenuto male, molto diverso da Santa-Rosa e da Santa-Catalina. All’interno non ho trovato nulla che fosse degno di attenzione, perciò sono salita sulla torre per vedere la città a volo d’uccello.
Dall’alto, questa superba città appare miserabile. Le case dal tetto piatto sembrano in rovina, la terra grigia con cui sono costruite ha un colore sporco e triste, le si scambia per delle capanne di una popolazione selvaggia. I monasteri e le numerose chiese di pietra, invece, hanno delle dimensioni gigantesche, si elevano ardite e solide a sfidare il tempo e contrastano in modo impressionante con la moltitudine di casupole. Si sente che nell’architettura degli edifici c’è la stessa mancanza di senso della misura che c’è nell’organizzazione sociale. Ma verrà il giorno in cui le case dei cittadini saranno più belle delle costruzioni religiose.
Il paesaggio che circonda la città è vario e pittoresco. Lontano, si vede il Callao con le sue due fortezze, l’isola di San Lorenzo, l’Oceano Pacifico e le Ande coperte di neve che incorniciano il quadro. Che panorama grandioso!
La visita al convento è stata così deludente che non sono stata tentata di vederne altri. Vi ero andata nella speranza di provare le emozioni suscitate dall’abnegazione e dallo spirito di sacrificio richiesti dalla religione. Invece, ho incontrato solo un esempio di declino della fede e di decadimento della vita conventuale.
La Zecca è situata in un bell’edificio e mi è sembrata gestita con efficienza. In questi ultimi anni vi sono stati dei notevoli miglioramenti. Sono stati fatti arrivare da Londra degli enormi laminatoi, azionati da una caduta d’acqua. Sotto il profilo artistico, le monete non sono belle come quelle europee, perché qui mancano gli abili incisori. Nel 1833 sono state battuti 3.000.000 di piastre d’argento e 1.000.000 di piastre d’oro.
Quando sono entrata nella prigione della santa Inquisizione, non sono riuscita a reprimere un moto di spavento. L’edificio è stato costruito con grande cura, come tutte le cose fatte dal clero spagnolo all’epoca in cui esso rappresentava l’autorità suprema dello Stato e disponeva di denaro per proclamare al mondo la propria magnificenza. Vi sono ventiquattro celle, ognuna delle quali misura una decina di piedi quadri e ha una piccola finestra, che lascia passare poca luce. Nei sotterranei ci sono le segrete destinate ai condannati alle pene più severe o agli sventurati di cui ci si voleva sbarazzare. La Sala delle Sentenze è in armonia con la sua terribile destinazione. Ha il soffitto molto alto e due piccole finestre con sbarre di ferro che lasciano passare una luce pallida e acquosa. Il Grande Inquisitore sedeva sul trono e i giudici erano sistemati dentro a delle nicchie nel muro, simili a quelle in cui si mettono le statue. Le pareti sono quasi interamente coperte da un rivestimento di legno, scolpito in modo mirabile. L’atteggiamento di totale insensibilità dei monaci, l’aspetto lugubre della sala, la lontananza da ogni abitazione bastavano a intimorire lo sfortunato che veniva condotto davanti ai giudici. La Santa Inquisizione è stata soppressa nel 1821, quando il Perù si è reso indipendente. Adesso l’edificio ospita una collezione di storia naturale, che comprende quattro mummie di Incas, che non hanno subito alterazioni, nonostante la preparazione fosse meno accurata di quella egiziana. Ci sono anche degli uccelli impagliati, alcune conchiglie e qualche minerale. La cosa che ho trovato più interessante è il grande assortimento di vasi incaici. Questo popolo modellava i recipienti di uso quotidiano in forme grottesche e vi disegnava delle figure simboliche. Mancano i quadri - ci sono solo tre o quattro misere croste, che non sono nemmeno incorniciate - e mancano anche le statue. Il museo è stato creato dal signor Rivero, un uomo colto che ha vissuto alcuni anni in Francia e che ha fatto il possibile per arricchire le collezioni. Purtroppo, non è sostenuto da nessuno, non ottiene soldi dalla repubblica, che non destina fondi a questo scopo, perciò i suoi sforzi finora sono stati vani. Il gusto per le belle arti si sviluppa solo quando le nazioni, stanche di guerre e di sommosse politiche, raggiungono un alto grado di sviluppo. Allora i loro abitanti si volgono verso le arti e riempiono di nuova linfa la loro esistenza disincantata.
Durante il mio soggiorno a Lima, sono andata più volte ad assistere ai dibattiti del Congresso. La sala, di forma allungata, è molto bella, anche se troppo piccola per la sua nuova destinazione. Un tempo serviva alle riunioni accademiche e ai solenni discorsi degli alti funzionari. Da dieci anni si fanno progetti per costruirne un’altra, ma i fondi dello Stato sono assorbiti dal ministero della Guerra e non ne restano per i lavori utili. I senatori sono seduti su quattro file, disposte a ferro di cavallo e il presidente è seduto nella curva.
Al centro, vi sono due grandi tavoli attorno ai quali siedono i segretari. I senatori non hanno un abbigliamento particolare. I militari, i preti e i borghesi vanno alle sedute con l’abito della loro professione. Vi sono due file di logge, che formano altrettante gallerie, destinate ai funzionari, agli agenti stranieri e al pubblico, mentre il fondo, a forma di anfiteatro, è riservato alle donne. Ogni volta che sono andata alle sedute, ho visto un gran numero di signore con il saya, che leggevano il giornale o discutevano di politica. In genere, i membri dell’assemblea parlavano dal loro posto, senza andare nella tribuna, che è poco usata. Le assemblee sono molto più severe e rigide delle nostre. Nessuno interrompe l’oratore che parla, tutti lo ascoltano in religioso silenzio, senza perdere una parola. I senatori mi sono sembrati molto eloquenti, anche per merito della lingua spagnola, così cadenzata e maestosa, oltre che per la fantasia di chi la parla. L’aspetto dignitoso degli oratori, la voce sonora, le parole ben pronunciate, i gesti solenni, tutto concorreva ad affascinare l’uditorio. Fra di essi si distinguevano in modo particolare i preti. Lo straniero che giudicasse questo paese dai discorsi dei suoi rappresentanti, si farebbe un’opinione ancora più errata che se giudicasse un libro dalla nota introduttiva dell’editore che lo pubblica. Tutti ricordano la bella insurrezione di Napoli del 1822, gli eloquenti discorsi degli oratori nell’assemblea, i loro giuramenti di morire per la patria, e quello che rimase delle loro parole all’avvicinarsi dell’esercito austriaco del feld-maresciallo Frimond. Ebbene! I senatori peruviani non sono da meno di quelli di Napoli, presuntuosi, coraggiosi solo a parole, facili ai discorsi ampollosi che trasudano abnegazione e amor di patria, mentre in realtà quello che conta solo i propri interessi personali, che quell’anno diedero spettacolo al mondo intero. In questa assemblea hanno luogo delle cospirazioni permanenti per appropriarsi delle risorse dello stato, scopo nascosto di tutte le idee. I discorsi sono ammantati di virtù, ma gli atti gli atti rivelano l’egoismo più vile. Ascoltando questi parlatori, pensavo al giornale del monaco Baldivia, alle arringhe di Nieto, alle circolari del prefetto di Arequipa, ai discorsi del capo degli Immortali e paragonavo il comportamento di quei capipopolo alle loro parole. Il ricordo mi ha fatto capire in che modo dovessi interpretare i discorsi degli oratori del Congresso e che cosa dovessi aspettarmi dalle loro dichiarazioni piene di coraggio, disinteresse e patriottismo.
Il palazzo del presidente è costruito male ed è collocato in un posto non adatto. La distribuzione interna dei locali è scomoda, la sala dei ricevimenti è una galleria lunga e stretta e l’arredamento è modesto. Entrando, ho pensato a Bolivar e a quello che mi aveva raccontato mia madre. Come aveva potuto, lui che amava il lusso e la magnificenza, adattarsi a vivere in questo palazzo, che non valeva neanche l’anticamera del suo hotel di Parigi? Ma a Lima egli era il capo e comandava, mentre a Parigi non era nessuno e l’amore per il potere fa passare in secondo piano molti svantaggi. Mentre ero a Lima, non ci sono stati né balli né ricevimenti nel palazzo presidenziale. Ne sono stata contrariata, perché ero curiosa di assistere a una di quelle riunioni mondane in pompa magna.
L’ampio palazzo del municipio non ha nulla di straordinario. Ho trovato più interessante la biblioteca, situata in un bel locale, con ampie sale ben tenute. Sui tavoli, ricoperti di panno verde, si trovano i giornali del paese, mentre sugli scaffali sono disposti, in modo ordinato, dodicimila volumi. La maggior parte di essi sono opere francesi: Voltaire, Rousseau, molti classici, la storia della Rivoluzione, le opere di madame de Stael, alcuni libri di viaggio e di memorie, madame Rolland… Sono stata molto contenta di trovare i nostri migliori autori. Sfortunatamente, il gusto della lettura è ancora poco sviluppato e non sono in molti ad approfittare dei prestiti. Ho visto, fra le tante, le traduzioni francesi di Walter Scott, di lord Byron e di Cooper, insieme a qualche opera in inglese, in tedesco e al meglio della letteratura spagnola. In definitiva, è una biblioteca molto bella per un paese relativamente poco sviluppato.
Lima ha un piccolo teatro decorato con gusto e dotato di un’illuminazione che fa apparire splendide le donne e le loro toelette. All’epoca del mio soggiorno c’era una mediocre compagnia teatrale spagnola, che recitava alcune commedie di Lopez e dei vaudevilles* malamente tradotti. Ho visto Le Mariage de raison, La Jeune Fille à marier e Le Baron de Felsheim, recitati senza costume perché gli attori erano troppo poveri per comprarlo. Per tre o quattro anni c'era stata un’ottima compagnia italiana che, secondo la signora Denuelle, recitava con successo le grandi opere. Poi la primadonna rimase incinta e non volle più saperne di restare. La sua partenza gettò nella disperazione il suo amante, che volle seguirla. Così, anche gli altri attori furono costretti ad andare a cercar fortuna altrove. Si recitava il giovedì e la domenica e ogni volta che ci sono andata ho visto pochi spettatori. Nell’intervallo fumavano tutti, anche le donne. Se gli abitanti avessero per le rappresentazioni drammatiche la stessa passione che hanno per la corrida, questa sala sarebbe troppo piccola.
Le dimensioni gigantesche dell’arena dimostrano il gusto dominante del popolo. Ho esitato a lungo prima di cedere alle sollecitazioni delle signore che mi offrivano il loro posto in tribuna. Mi era difficile superare la ripugnanza per quelle uccisioni crudeli, tuttavia, volendo studiare i costumi del paese, dovevo vedere la gente nei luoghi dove la portavano le sue inclinazioni, anziché limitarmi alle osservazioni da salotto. Perciò, una domenica mi sono recata alla corrida in compagnia della zia, di un’altra signora e del signor Smith. C’era un pubblico di cinque o seimila persone, tutte ben vestite, secondo la propria condizione e felici del piacere che stavano per provare. Attorno all’arena c’erano venti file di panche disposte ad anfiteatro. Sopra c’era la galleria, divisa in palchi, occupati dall’aristocrazia. Provo un dolore immenso a fare un resoconto dello spettacolo barbaro e disgustoso a cui ho assistito, perché la vista della sofferenza mi fa star male. Non riesco a padroneggiare le emozioni che ho provato davanti a quella scena di orrore e mi sfugge di mano il pennello per dipingerla.
Nell’arena c’erano quattro o cinque uomini a cavallo, con in mano una piccola bandiera rossa e una lancia con una lama tagliente rivestita di acciaio. Al centro del campo, c’era un piccolo recinto formato da pioli, piantati vicini per impedire ai tori di infilare la testa negli interstizi. All’interno, c’erano tre o quattro uomini che uscivano per aprire la porta all’animale che entrava nell’arena. Quando esso era in campo, lo punzecchiavano, gettandogli dei razzi sulla schiena e nelle orecchie e sottoponendolo a ogni sorta di tormento. Appena temevano di essere sventrati, si riparavano in fretta dietro ai pali. Credo che sia impossibile non provare spavento quando il toro entra nell’arena e si avventa sui cavalli con furore convulso, facendo mille balzi, muggendo rabbiosamente, inseguendo uomini e cavalli con il pelo ritto, la coda battente sui fianchi e le narici spalancate.
Capisco la forte attrazione suscitata da questo spettacolo in Andalusia, dove il furore degli splendidi tori non ha bisogno di essere eccitato e dove i destrieri sono pieni di fuoco e di vigore. I toreri, vestiti come paggi, scintillanti di diamanti e di lustrini d’oro, si prendono gioco dell’ira del terribile animale con grazia, agilità e magica bravura e lo abbattono con un solo colpo, conferendo grandiosità a questo spettacolo sanguinoso. Si comprendono l’entusiasmo e l’ebbrezza degli spettatori davanti a un coraggio così eroico e ad un pericolo così reale. A Lima, invece, non c’è nulla che renda attraenti queste scene di bassa macelleria. Il clima umido e snervante infiacchisce i tori e i cavalli e prostra gli uomini. Per evitare che gli spettatori si annoino gli uomini che stanno dentro la rotonda, armati di un falcetto legato in punta a una pertica, dieci minuti dopo la sua liberazione tagliano i garretti posteriori al toro, che è già affaticato. È una pena vedere il povero animale, che si trascina in giro reggendosi solo sulle zampe anteriori. Quando è in questo stato, i prodi toreri gli gettano dei razzi, gli vibrano dei colpi di lancia, in una parola, lo uccidono da fermo, come potrebbero farlo dei maldestri e barbari garzoni di macellaio. Lo sfortunato toro si dibatte, emette dei gemiti sordi, dagli occhi gli scendono grosse lacrime, fino a quando la testa gli cade in una pozza di sangue scuro. Mentre l’animale viene portato via su di un carretto trainato da quattro cavalli al galoppo, si suona la fanfara. Il pubblico applaude, urla, batte i piedi, con grande gioia ed esaltazione, tutti sembrano aver perso la testa perché otto uomini armati hanno appena ucciso un toro. Che bel motivo di entusiasmo! Ero disgustata da questo spettacolo e, appena il primo toro è stato ucciso, me ne volevo andare, ma le signore mi hanno detto: “Bisogna aspettare, perché lo spettacolo più bello è verso la fine. Gli ultimi tori sono i più cattivi e può darsi che uccidano dei cavalli o feriscano degli uomini…”, mettendo l’accento sulla parola uomini, come per dire: “Allora sì che sarà interessante!”.
Siamo state fortunate. Il terzo toro ha sventrato un cavallo e ha rischiato di uccidere il torero che lo montava. I tagliatori di garretti, spaventati, gli hanno subito mutilato tutte e quattro le zampe e l’animale, ansimante di rabbia, è caduto a terra, intriso del suo sangue. Il cavallo aveva le budella di fuori e, a quella vista, sono uscita in fretta perché presagivo di sentirmi male. Il signor Smith era pallido ed è riuscito solo a dirmi: “ E’ uno spettacolo disumano e disgustoso.”
Appoggiata al suo braccio, ho passeggiato per qualche tempo lungo il fiume. L’aria pura mi ha rianimata, anche se il luogo da cui ero uscita continuava a rattristarmi. Il fascino che lo spettacolo del dolore aveva per la popolazione mi sembrava indicare un alto grado di depravazione. Ero immersa in queste riflessioni quando abbiamo visto il calesse della mia bella zia, che mi ha gridato da lontano : “Ebbene, dolce Florita, perché ve ne siete andata sul più bello? Se aveste visto l’ultimo toro, che animale magnifico e terribile! C’è stato un tale entusiasmo fra il pubblico! Era fantastico!”
“Popolo malvagio! – ho pensato – sei dunque senza pietà per trovare piacevoli simili spettacoli!”
Il Rimac somiglia molto al fiume che scorre vicino ad Arequipa su di un letto di pietre, fra grandi rocce. I curiosi si radunano sul bel ponte che lo attraversa per guardar passare le donne che vanno a passeggiare sul Paseo del Agua. Prima di proseguire, voglio parlare del costume che indossano le donne di Lima, dei vantaggi che ne traggono e dell’influenza che ha sugli usi, le abitudini e il carattere.
Non c’è luogo sulla terra dove le donne abbiano maggior potere e libertà che a Lima. Sono delle sovrane assolute e uniche dispensatrici di ogni impulso vitale, perché sembrano le sole ad assorbire la debole porzione di energia concessa agli abitanti dal clima caldo e snervante del paese. A Lima le donne sono generalmente più alte e robuste degli uomini. A undici o dodici anni sono già sviluppate, si sposano e, poiché sono molto feconde, danno vita a di solito sei o sette bambini. Hanno gravidanze senza problemi, partoriscono facilmente e si ristabiliscono in fretta. Quasi tutte allattano con l’aiuto della balia, un’abitudine che viene loro dalla Spagna, dove i bambini delle famiglie benestanti hanno sempre due nutrici. In genere, le donne di Lima non sono belle, ma hanno qualcosa di attraente nelle fattezze, che fa battere più forte il cuore degli uomini. La maggior parte di loro non ha la pelle scura, come si crede in Europa. Al contrario, esse sono molto bianche o di differenti sfumature di bruno. La pelle è morbida come il velluto e la carnagione ha un colorito caldo e pieno di vita. Le labbra sono di un rosso vivo, i bei capelli neri hanno riccioli naturali e gli occhi neri, di forma mirabile, possiedono un’espressione indefinibile di arguzia, di fierezza e di languore, in cui sta tutto il loro fascino. Si esprimono con grande facilità e i loro gesti sono espressivi come le parole che li accompagnano.
Il loro costume, il saya, è molto particolare. Lima è l’unica città in cui sia mai stato visto e inutilmente si è cercato di scoprire, nelle antiche cronache, da dove esso abbia origine. Non ha nulla in comune con i costumi spagnoli e di sicuro non è stato portato dalla Spagna, perché è già stato trovato sul posto al tempo della scoperta del Perù. Tuttavia, non esiste in alcuna altra città dell’America.
È composto di una gonna e di una specie di sacco, il manto, che avvolge le spalle, le braccia e la testa. Mi sembra già di sentire le critiche delle signore eleganti di Parigi, che trovano da ridire sull’eccessiva semplicità di un simile indumento, ma non hanno idea di quanto esso doni alla civetteria femminile. La gonna è fatta di stoffe diverse, secondo il rango di chi la indossa, ed è un lavoro talmente straordinario che dovrebbe figurare di diritto nelle collezioni, come oggetto di curiosità. La si può far eseguire solo a Lima e le Limegne sostengono che bisogna essere nati qui poterla confezionare. Un Cileno, un Arequipegno o un Cuzcaino non riuscirebbero mai a pieghettarla. Non mi sono preoccupata di verificare l’esattezza di questa
Anche in italiano si usa il termine francese, usato dalla Tristan, plissé che vuol dire increspato, pieghettato. Esso indica un tipo di lavorazione del tessuto delle gonne, con la creazione di pieghe piccole, molto ravvicinate e ben marcate. Da noi, per eseguire questo lavoro, si usa una macchina apposita, la plissettatrice.
La stoffa del manto, nera e sottile, è anch’essa pieghettata, ma il suo plissé si usura prima per il continuo movimento di chi lo indossa e per il vapore acqueo del respiro. Le donne della buona società portano un saya di raso nero e le più eleganti ne hanno anche uno viola, marrone, verde, blu, o a righe. Il colore chiaro è portato solo dalle donne di strada. Il manto avvolge il busto e parte della testa, lasciando scoperto un occhio. Le Limegne portano anche un corpetto di cui si vedono solo le maniche, corte o lunghe, di velluto, di raso colorato o di tulle, anche se la maggior parte di esse va in giro tutto l’anno a braccia scoperte. Le donne di Lima hanno calzature eleganti, che attirano gli sguardi. Le scarpe sono di satin ricamato e colorato, con dei nastri di sfumature contrastanti e le calze di seta di tutti i colori hanno dei motivi ornamentali ricamati. Le donne spagnole si distinguono ovunque per l’eleganza delle loro calzature, ma le donne di Lima eccellono in questo particolare della loro toeletta.
Alcune Limegne portano i capelli divisi al centro e legati in due trecce da un grosso nastro annodato in fondo, altre portano i capelli inanellati come Ninon, con dei ciuffi di boccoli scendenti sul seno che è lasciato quasi sempre scoperto, secondo l’uso del paese. Da qualche anno c’è la moda di coprirsi con delle grandi sciarpe di crespo di Cina riccamente ricamate. Questi scialli velano le nudità, nascondono le parti prominenti del corpo, che prima erano un po’ troppo sottolineate, e rendono il costume più pudico. Un’altra ricercatezza è quella di portare un bellissimo fazzoletto da tasca di batista ricamato e bordato di pizzo.
Come sono incantevoli le donne di Lima con il loro bel saya nero che brilla al sole e com’è pieno di grazia il movimento delle loro spalle quando sollevano il manto per nascondersi il viso, lasciandolo intravedere solo di sfuggita! Come sono sottili e flessuose le loro figure, che ondeggiano sinuosamente per le strade! E come sono attraenti i loro piccoli piedi un po’ troppo paffuti!
Se una di queste donne si vestisse con un abito di Parigi non sarebbe più la stessa, diventerebbe irriconoscibile e si cercherebbe invano per la città la seducente creatura incontrata la mattina nella chiesa di Santa Maria. A Lima, gli stranieri non vanno in chiesa per ascoltare i monaci che cantano l’ufficio divino, ma per ammirare le donne nel loro costume nazionale.
Un gran numero di stranieri, che ha affrontato avventurosamente mille pericoli con la ferma persuasione che la fortuna fosse in attesa su queste rive lontane, mi ha raccontato l’effetto prodotto sull’immaginazione dalla vista di queste donne. Esse sono sembrate loro le sacerdotesse del luogo e hanno creduto che Dio li avesse fatti approdare in un paese incantato, simile al paradiso di Maometto, per risarcirli delle terribili sofferenze della traversata e per ricompensarli del loro coraggio.
Questi voli della fantasia non sono inverosimili quando si è stati testimoni delle follie e delle stravaganze che le belle donne di Lima fanno commettere agli stranieri. Si direbbe che una specie di vertigine si impadronisca dei loro sensi. Nascondendo con cura il desiderio ardente di scoprire i loro lineamenti, gli uomini le seguono con avida curiosità. Tuttavia, occorre una certa esperienza per seguire le donne con il saya, perché il costume tende a far sembrare le loro figure tutte uguali. Ci vuole molta attenzione per non perdere di vista quella dallo sguardo incantatore, che scivola fra la gente con una corsa sinuosa e si sottrae all’inseguimento.
Se la bellezza delle forme e lo sguardo magnetico bastassero ad assicurare alle donne la supremazia, quelle di Lima sarebbero proclamate regine della terra. Ma sono le qualità spirituali, morali e mentali che assicurano una duratura preminenza nel regno, questo tipo di bellezza, invece, eccita solo i sensi.
Tutte le donne portano il saya, il costume nazionale, a qualunque classe appartengano. Esso fa parte delle usanze del paese, come il velo delle musulmane in Oriente. Se qualcuno osasse sollevare il manto che nasconde loro il viso provocherebbe la pubblica indignazione e sarebbe punito severamente. Le Limegne vanno quasi tutte in giro da sole, anche se c’è una negra che le segue a distanza. Il costume ne modifica anche la voce, dato che la bocca è coperta e senza qualche particolare notevole, come la statura molto alta o molto bassa, una gobba o una gamba più corta, è impossibile riconoscerle. Non ci vuole molta fantasia per apprezzare i vantaggi di questa pratica di travestimento sanzionata o, almeno, tollerata dalla legge. A Lima una donna fa colazione con il marito in négligé e con i capelli tirati su, poi infila il saya senza il corsetto, scioglie i capelli, si nasconde il viso con il manto, esce e va dove vuole. Se per strada incontra il marito e questi non la riconosce, ella flirta con lui, gli fa le moine, lo provoca, si fa offrire il gelato, dei frutti, dei dolci, gli dà appuntamento e poi lo lascia per ricominciare tutto con un ufficiale di passaggio. Può spingersi lontano quanto vuole in questa nuova avventura, senza mai abbandonare il manto. Più tardi va a trovare le amiche, fa una passeggiata e torna a casa in tempo per la cena. Suo marito non le chiede dove è stata, perché sa perfettamente che, se le conviene tacere, ella non gli dirà mai la verità. Poiché lui non ha i mezzi per impedirle di uscire, sceglie la via più saggia, quella di non preoccuparsi. Così le signore vanno da sole a teatro, alla corrida, alle riunioni pubbliche, ai balli, in chiesa, a passeggio, a far visita alle amiche e sono ovunque bene accette. Se incontrano qualcuno con cui desiderano chiacchierare lo fanno, poi se ne vanno e restano libere e indipendenti tra la folla, molto più di quanto non lo siano gli uomini, che hanno il viso scoperto. Questo costume ha anche il vantaggio di costare poco, di non sporcarsi facilmente, di essere comodo e sempre pronto per essere indossato, senza richiedere grandi cure.
Quando le donne di Lima vogliono rendere ancora più segreto il loro camuffamento, mettono un saya logoro e senza pieghe, un manto malridotto e un vecchio corpetto. Le donne che vogliono far sapere di provenire da una classe sociale elevata, indossano delle scarpe di qualità e mettono uno dei loro fazzoletti da taschino più belli. Questo modo di nascondersi si chiama disfrazar e una donna disfrazada è considerata molto rispettabile, perciò nessuno le rivolge la parola e la si avvicina con molta discrezione senza mai seguirla, perché sarebbe considerato sleale. Se si è camuffata, si pensa, vuol dire che aveva delle buone ragioni per farlo, e, di conseguenza, nessuno deve arrogarsi il diritto di spiare le sue mosse.
È facile capire da quello che ho scritto che le donne di Lima hanno un modo di pensare diverso da quelle europee. Queste ultime, sin dall’infanzia, sono schiave di leggi, mode, usi, costumi e pregiudizi. Sotto il saya, invece, le donne limegne sono libere e si godono la propria indipendenza, confidando nella forza genuina che ognuno possiede quando è libero di agire secondo i propri bisogni. Sono sempre se stesse, in ogni situazione, e non subiscono costrizioni. Da ragazze si sottraggono all’autorità dei genitori attraverso la libertà consentita dal costume, quando si sposano non prendono il nome del marito ma conservano il proprio e in casa sono loro le padrone; quando sono stufe di stare in casa, indossano il saya ed escono, come fanno gli uomini che si mettono il cappello. Nelle relazioni intime, serie o occasionali, conservano la loro dignità, anche se la loro condotta è diversa dalla nostra. Come tutte le donne, esse misurano la profondità dell’amore dell’uomo dall’entità dei sacrifici fatti.
Le donne di Lima applicano lo stesso principio, ma purtroppo finiscono per trascurare l’intelligenza e la virtù, per prendere in considerazione come prova d’amore solo la quantità di oro che viene loro offerta, come è successo al loro paese, che ha attirato gli Europei per il prezioso metallo che nasconde.
Esse giudicano la sincerità dell’amante dal valore del dono che ricevono e la loro vanità è più o meno soddisfatta secondo il prezzo degli oggetti che hanno avuto in regalo. Quando qualcuno vuole dare un’idea dell’amore violento di un gentiluomo per una signora, dice: “Le ha offerto dell’oro a palate, le ha comprato tutto quello che c’era di più caro e prezioso, rovinandosi!…” come noi diremmo: “Si è ucciso per lei!”. La donna ricca accetta sempre i soldi dell’amante, anche se poi li dà alle serve, perché per lei sono una prova d’amore, la sola che possa convincerla di essere amata. La vanità dei viaggiatori stranieri li ha resi ciechi davanti a questa verità, e quando parlano dei loro successi amorosi dimenticano di menzionare la piccola fortuna profusa in quegli idilli. Ho visto molte signore della buona società portare degli anelli, delle catene e degli orologi da uomo…
Le donne di Lima dedicano poco tempo alla casa, ma, poiché sono molto energiche, quel poco è sufficiente a tenere la casa in ordine. Hanno una forte inclinazione per la politica e gli intrighi e sono loro che trovano un posto di lavoro per il marito, i figli e gli uomini che le interessano. Non c’è ostacolo che non riescano a superare per raggiungere il loro scopo. Gli uomini non si immischiano in questo genere di affari e hanno ragione, perché non saprebbero cavarsela con altrettanta abilità.
Le Limegne amano i piaceri, le feste, le riunioni in cui giocano grosse somme e fumano i sigari. Vanno a cavallo con dei larghi pantaloni, come gli uomini, hanno una passione per i bagni di mare e nuotano molto bene. Nel tempo libero suonano la chitarra, cantano abbastanza male e danzano in modo affascinante le danze del paese. In genere, non ricevono alcuna istruzione, non leggono mai e ignorano tutto ciò che accade nel mondo.
Sono d’ingegno vivace, di intelligenza pronta e hanno una buona memoria.
Ho descritto le donne di Lima come sono e non come le raffigurano certi viaggiatori. Mi è costato farlo, perché sono loro riconoscente per la generosa ospitalità, ma il mio ruolo di viaggiatrice responsabile mi impone di dire la verità.
Ho parlato del teatro e delle corride, ma non dello spettacolo molto seguito offerto dalle chiese. A Lima tutti vanno a messa due o tre volte al giorno: una volta nella cattedrale, che, con la sua bellezza attira un gran numero di ragazze graziose e di stranieri; un’altra volta nella chiesa di S. Francesco, perché i frati distribuiscono dell’ottimo pane consacrato, vi si ascolta l’organo e i sacerdoti indossano dei ricchi paramenti; una terza volta nella chiesa del Bambino Gesù, per ascoltare il canto degli uccelli in gabbia. In quasi tutte le chiese di Lima si vedono delle gabbie piene di uccelli di specie diverse, sistemate vicino all’altare, e il loro canto spesso copre la voce del prete che officia la messa. Oltre all’intrattenimento quotidiano, vi sono almeno due processioni la settimana, ancora più ridicole e indecenti di quelle di Arequipa. Infine, per dare continuità alle cerimonie e garantire che l'edificazione e il divertimento dei pii abitanti non subisca interruzioni, ci sono servizi anche la sera, celebrati con grande pompa. Quante scuole si potrebbero costruire con i soldi spesi per queste futili cerimonie! E quante cose utili si potrebbero fare o apprendere nelle ore che vi si sprecano!
Le due passeggiate principali di Lima sono l’Almendral e il Paseo del Agua, che è la preferita. È bella, ma i grandi alberi e il fiume che le scorre a fianco, la rendono umida e nociva d’inverno. D’estate, invece, manca l’aria e la domenica e i giorni festivi sembra di essere sul Boulevard de Gand a Parigi. con la folla che si accalca dalla parte dell’ombra. Le donne indossano il saya e molte sono sedute sulle panchine in una posa che scopre loro le gambe fino al ginocchio. La strada è piena di calessi, alcuni dei quali si muovono a passo d’uomo, altri stanno fermi, per permettere alle signore al loro interno di farsi ammirare. Se non fossi stata in compagnia di mia zia, le quattro o cinque ore che vi si passano mi sarebbero parse interminabili. Ma la sua arguzia è al culmine quando deve fare delle critiche e al paseo c’era molto da criticare…
Il periodo migliore dell’anno è l’inizio della primavera, quando le celebrazioni sono numerose e magnifiche. Il 24 giugno, festa di San Giovanni, c’è la passeggiata degli Amancaes, una specie di Longchamp a cui ho partecipato in compagnia di dona Calista, una delle mie amiche. C’era tutta la popolazione, più di un centinaio di calessi che trasportavano signore abbigliate con dei vestiti splendidi, numerosi cortei di persone a cavallo e una folla immensa di persone a piedi. Il nome della festa deriva dagli amancaes, i fiori gialli che in maggio e giugno coprono le montagne. La strada è molto ampia e, a una certa altezza, la vista è incantevole. In molti punti ci sono delle tende, dove si vendono bibite e si eseguono danze indecenti. Nei due mesi che dura la stagione il bel mondo frequenta questi luoghi. La tirannia della moda e il desiderio di vedere e di essere visti fanno passare in secondo piano gli inconvenienti e la scomodità del posto. I cavalli affondano fino al ginocchio nella sabbia della strada, soffia un vento freddo e, la sera, se si rientra appena un po’ più tardi, si rischia di essere fermati dai ladri, di cui Lima abbonda. Ciononostante, gli abitanti di Lima accorrono in gruppo, con grande passione, sulla montagna , si portano dietro pranzo e cena e vi passano la notte.
Non mi sono limitata, tuttavia, a visitare palazzi e a fare passeggiate; ho cercato anche di conoscere persone importanti, per sapere come si vive qui. La senora Balthazar de Benavedez e la senora Ines de Izcue, a cui ero stata indirizzata, mi hanno accolta nelle loro case e hanno dato cene sontuose in mio onore. Non c’è niente di più noioso di questi banchetti, nei quali si esibiscono i migliori servizi di piatti e i bicchieri di cristallo, ma soprattutto molte portate e prelibatezze. Lima si distingue per i suoi progressi nell’arte di cucinare, negli ultimi dieci anni si è seguita la cucina francese. Il paese fornisce dell’ottima carne, degli ortaggi di qualità, una grande abbondanza di frutti squisiti e una varietà di pesce, per cui è facile preparare, a poco prezzo, dei pasti abbondanti. Ma per me che ho l’abitudine di cenare in dieci minuti, questi banchetti erano una fatica incredibile. Vengono servite due o tre portate e bisogna mangiare di tutto per non trasgredire le regole del galateo. Ogni volta dovevo spiegare che non mangiavo né carne né minestra e che la mia dieta era limitata a verdure, frutta e latte. Si sta a tavola almeno un paio d’ore, durante le quali la conversazione passa dalle considerazioni sulla bontà del cibo agli elogi pomposi al padrone di casa. Anche qui, come ad Arequipa, c’è l’abitudine di offrirsi a vicenda dei bocconi di cibo in punta alla forchetta, ma è un’usanza che va scomparendo. La quantità di cibo che ho visto consumare in queste occasioni è veramente prodigiosa, e con esso vengono serviti i vini migliori. Il risultato è che, alla fine del pasto, quasi tutti i commensali si sentono male e sono in uno stato di torpore che li rende incapaci di dire una parola. L’abbondanza di cibo indica che il popolo è legato al godimento dei piaceri materiali. Ci si mette a tavola alle tre, ci si alza verso le cinque o le sei, poi si rimane per un’ora a tenere compagnia ai padroni di casa. Questi banchetti, dannosi per la salute, per me erano una grande fatica.
Malgrado l’accoglienza amichevole dei miei nuovi amici e le distrazioni della città, desideravo partire. Per quanto gradevole fosse il clima, per quanto allegri i suoi abitanti, Lima era l’ultimo posto al mondo dove avrei desiderato vivere. La sensualità vi regna suprema e gli abitanti, che hanno occhi, orecchi e palato, non hanno un’anima in cui gli stimoli della vista, dei suoni e del gusto abbiano una risonanza. Non ho mai percepito così a fondo il vuoto e l’aridità nell’ambiente circostante come nei due mesi che ho trascorso nella capitale.
La mia impazienza di tornare in Europa cresceva ogni giorno. Da quando l’avevo lasciata, l’amavo e apprezzavo di più e attendevo con ansia il momento della partenza. La mia curiosità era ormai soddisfatta e la vita puramente materiale di Lima mi affaticava molto.
L’ultima settimana non ho avuto neanche un minuto per me. Ho dovuto dire addio a tutti i conoscenti, restituire le visite di commiato, scrivere numerose lettere ad Arequipa, vendere le cose di cui volevo disfarmi. Dopo aver portato a termine tutte queste cose, ho lasciato Lima il 15 luglio 1834 alle nove del mattino, per recarmi al porto del Callao, accompagnata da un cugino, il signor de Rivero. Dopo pranzo, ho fatto trasportare i miei bagagli a bordo del William Rushton.
Il giorno dopo ho ricevuto molte visite da Lima. Sono stati gli ultimi addii. Verso le cinque la nave ha salpato l’ancora e tutti si sono ritirati nelle cabine.
Ero sola, completamente sola, fra le due immensità dell’acqua e del cielo.